Faccio parte di una piccola comunità di consacrati. Il mio problema è che la responsabile di comunità è anaffettiva, incapace di calore, ascolto, comprensione. Forse è anche una questione di intelligenza. Comunque una sorella è recentemente andata via perché non ce la faceva più: non ne abbiamo neanche potuto parlare in comunità, come se fosse un fastidio trascurabile o una vergogna. Ma siamo una famiglia o no? Mi chiedo cosa Dio vuole da me, e se è il caso di andarmene anch’io. Ho provato a parlare con qualche superiore, ma mi dicono solo di amare la croce. Che ne pensa? Paola
Gentilissima Paola, grazie per la sua preziosa domanda che mi dà modo di riprendere il filo del discorso iniziato la volta scorsa.
“
Siamo una famiglia?” “Nì”.
Sì, se per famiglia si intende il clima di rispetto, di accoglienza, di fiducia e di reciproco sostegno. Rigorosamente
no, se per famiglia si intendono relazioni necessariamente amichevoli e spontaneamente concordi. “
Un cuor solo ed un’anima sola” non credo abbia il senso di un ambiente già di suo positivo, piuttosto indica
il cammino verso la costruzione di una vita insieme sempre più armoniosa e benevola, a partire da se stessi. Questo cammino a volte può essere molto lungo e non è detto che il risultato sia quello sperato, perché ci sono maturità, sensibilità, storie diverse che non facilitano tale percorso.
Anche per questo non è sempre bene che tutti sappiano tutto. Voglio dire che
essere comunità non implica il condividere sempre i fatti più intimi, perché non tutti hanno gli strumenti interiori per “sapere”, per accogliere, per custodire... per conoscere. Il divulgare ogni cosa - sempre per un fraintendimento del senso di famiglia -
è molto imprudente.
A questo punto aggiungo perciò alcune considerazioni.
La prima è che, ha ragione, la
tendenza a non parlare dei problemi concreti purtroppo negli ambienti di vita comune è presente, come se il non parlarne facesse “evaporare” le difficoltà, mentre invece il parlarne screditasse l’intera esperienza di vita (cosa che accade talvolta anche in famiglia). Non meno grave è la tendenza, molto meno presente rispetto al passato, di spiritualizzare i disagi richiamando la
croce, la
volontà di Dio, il
sacrificio, aspetti evidentemente centrali della fede, che però talvolta
nascondono la paura di incontri franchi e diretti fra le persone o la paura di affrontare le questioni che riguardano l’andamento della vita insieme.
Ha ragione anche riguardo alla scelta, non sempre oculata, di persone responsabili di comunità, magari carenti di una formazione adeguata e delle
qualità umane necessarie per poter esercitare “il servizio dell’autorità”.
Tuttavia…
Per essere onesti, bisogna riconoscere che superiori, rettori e formatori non hanno preso quel posto per volontà propria, ma sono stati indicati dalla comunità o dai vertici dalla congregazione o dall’istituto, e dunque c’è da valutare piuttosto
quali siano i criteri che vengono adottati dai membri stessi, o comunque dai loro delegati, nel votare una persona piuttosto che un’altra.
Inoltre, riprendendo ciò che avevo già accennato, coloro che entrano in seminario, in una congregazione, o in qualunque altra realtà carismatica, sono tutte persone adulte che rispondono ad un’intuizione profonda e personale, la “vocazione”.
Nessuno però sceglie quella determinata comunità o quegli specifici membri: la vocazione infatti non è “a pacchetto”, pertanto ciascuno inizia in autonomia, e poi gradualmente porta avanti la strada intrapresa in altrettanta autonomia, almeno come impegno. Non vorrei essere fraintesa perciò provo a spiegarmi meglio.
Una delle grandi sfide della maturità umana è quella di acquisire
motivazioni sempre più profonde e personali, un autore parla di livello internalizzante, quando cioè la persona ha fatto propri determinati valori, e non ha più bisogno di esempi, né – almeno idealmente – di premi e punizioni per poterli vivere. È vero quindi che una responsabile di comunità dovrebbe avere capacità di ascolto, empatia e un adeguato equilibrio personale – le doti di un
coach più che di un capo –, tuttavia
qualora ciò non accadesse non è pensabile che io perda la mia vocazione.
Se il clima comunitario dipendesse da una persona sola ciò significherebbe che i rapporti instaurati non sono abbastanza liberi e adulti, e che le stesse scelte sono piuttosto fragili, perché legate ad un’unica figura di riferimento.
Le dico perciò che la
qualità della vita fraterna è una responsabilità comune e se tutti i membri si impegnano personalmente – e qui entra in gioco ancora una volta la maturità individuale –, la carenza di una persona sola, anche se responsabile, non può compromettere in modo radicale il vivere insieme.