Esercizi di… mitezza

Il coraggio di mostrare ciò che umano è in noi. Perché c’è chi cerca la felicità, e chi la crea.

Ammiro i miti e un po’ mi spaventano. Mi spaventano molto di più i violenti, che non ammiro. Perché ammiro i miti. Perché senza di loro la terra sarebbe disabitata.

«Beati i miti, perché abitano la terra in modo che possa ancora essere abitata dopo di loro in modo degno dell’uomo». Così Sergio Givone declina la terza beatitudine evangelica. Non “abiteranno” nel futuro, ma “abitano” nel presente. Cambiamo ulteriormente i tempi verbali e ribaltiamo del tutto la beatitudine. «Beati noi, che abbiamo ereditato la terra, perché i miti prima di noi l’hanno abitata».

È vero che a volte la terra ereditata ci appare desolata, come nei versi di Eliot:

Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia

Eppure, proprio questa desolata osservazione potrebbe generare in noi una mitezza, che assomiglia alla responsabilità: per il futuro della terra, per quanti la abiteranno dopo di noi.

La mitezza è la pozza fra la roccia, sulla strada. Mi sta a cuore la mitezza perché è così necessaria e fuori moda; mi sta a cuore il suo destino e la sua comprensione. La mitezza è soggetta a fraintendimenti, per cui vorrei fare innanzitutto un esercizio di demitizzazione: de-mitizzare la mitezza. Proviamo a sfatare tre miti sui miti: il mite è debole, il mite è indifeso, il mite è cieco.

Primo mito: il mite è debole. Il mite non è debole, il mite è capace di tenerezza e gentilezza, sorelle della mitezza. Tre sorelle, tre nature – mitezza, tenerezza, gentilezza – che non hanno niente a che fare con l’arrendevolezza o la passività, quanto piuttosto con la capacità, il coraggio di mostrare ciò che umano è in noi, di coglierlo negli altri, di farlo emergere.

Ci vuole una grande forza per mostrarsi gentili e teneri: la forza di trasformare un sistema ego-centrico (pre-occupato del sé) in un sistema altero-centrico (pre-occupato dell’altro). È un grande lavoro da fare, un lavoro doppio. Il lavoro, in fisica, è quello che compie una forza quando sposta un corpo. I corpi da spostare sono due: il nostro da decentrare, quello dell’altro da mettere al centro.

Secondo mito: il mite è indifeso. Il mite non è indifeso, il mite ci difende, difende ciò che è umano in noi, lo custodisce.

C’è una nota storiella zen, che ha a che fare con la mitezza. Un maestro vuole trarre in salvo uno scorpione dallo stagno, ma questi gli punge la mano. Per il dolore il maestro lo lascia cadere nell’acqua, dove di certo annegherà. Questo pensiero non gli dà pace: fa un nuovo tentativo, ricevendo in cambio un’altra velenosa puntura. Insieme a noi lettori, c’è un discepolo ad assistere alla scena (nelle parabole zen c’è sempre un discepolo in cui il lettore si immedesima), che non può fare a meno di chiedere: «Scusate, maestro, ma perché continuate? Non capite che ogni volta che provate a tirarlo fuori all’acqua, lo scorpione vi punge?». Il maestro risponde: «La natura dello scorpione è di pungere e questo non cambierà la mia che è di aiutare».

Alla fine il maestro trova uno stratagemma per salvare lo scorpione senza essere punto, senza morire avvelenato: usa una foglia. Lo scorpione è salvo, il maestro (la sua natura) pure. La storia si chiude con una serie di massime e imperativi etici che rischiano, nell’accumulo, di depotenziarsi a vicenda (come in una descrizione ridondante di aggettivi e avverbi). Ci concentriamo solo su una di esse: «Gli uni perseguono la felicità, gli altri la creano», dice il maestro.

Il mite è colui che crea felicità, rendendo possibile agli altri di perseguirla. Lo fa, innanzitutto, difendendo la natura umana (dalla natura dello scorpione).

Terzo mito: il mite è cieco. Il mite non è cieco, il mite ci vede. Vede così bene, così a fondo nell’animo umano, da riconoscere la ferita dell’altro nella ferità che l’altro ci reca. Spesso dietro al veleno, alla puntura dello scorpione, non c’è una natura violenta, c’è una natura violata, una ferita infetta, una fragilità rifiutata, che invece di chiedere aiuto, accettazione, cura, sferra un colpo di coda, punge, infligge a sua volta una ferita.

Il mite vede, riconosce la ferita dell’altro, la sua fragilità, la accoglie, l’accetta, e così facendo accetta, accoglie la fragilità che è in lui. Inventa l’antidoto. È una storia di cura, in più sensi, quella dello scorpione e del maestro.

Ho scritto in apertura che ammiro i miti, e ora si capisce perché. Ho scritto anche che i miti un po’ mi spaventano. Non è vero, non sono i miti a spaventarmi, mi spaventa il veleno, la puntura, lo scorpione. È una paura con cui la mitezza costringe a fare i conti. Forse il vero esercizio è superare questa paura.

Può aiutarci l’intelligenza, che è una e trina, come spiega Čechov nel racconto La steppa. Jegòruška, un bambino di nove anni, è in viaggio con lo zio e un sacerdote per raggiungere la località dove frequenterà la scuola. Lungo la strada incontro Panteléi, un vecchietto, scalzo e saggio, che gli dice delle cose meravigliose nella loro semplicità:  

Sì. Un’intelligenza è una bella cosa, e due sono meglio. A un uomo Dio ne dà una sola, a un altro due, e a qualcuno anche tre… A qualcuno tre, è così… Una, quella con cui ci partorì la madre, un’altra che viene dallo studio, e la terza da una vita buona. E così, ecco, fratellino, è bello che un uomo abbia tre intelligenze. Per lui non soltanto vivere, ma anche morire è più facile.

La terza intelligenza è quella che ci fa andare oltre la natura (che spinge ad aiutare lo scorpione) e la ragione (che mette in guardia dalla puntura, dal pericolo, dall’esposizione al male, al dolore). Va oltre perché è innamorata del bene: di una vita buona. Vito Mancuso la chiama “mente innamorata”, generata dal bene praticato (e ricevuto). È un’intelligenza che cresce con la pratica, più che con lo studio. Assomiglia a una saggezza, più che a un sapere, a una conquista più che a un dono. Per questo occorre esercitarla.

E così abbiamo sfatato anche il quarto mito: il mite è stupido. Il mite non è stupido, il mite è tre volte intelligente.

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