Esercizi di… benedicenza
La benedicenza è una parola antica, caduta in disuso, e con essa la sua pratica. Molti vocabolari non la riportano più. Ne ho trovato una definizione (succinta) solo sul De Mauro e sull’Hoepli: “benedicenza = lode, encomio, contrario di maldicenza”. È più facile definire la maldicenza (di cui abbiamo maggiori evidenze linguistiche).
Maldicenza: parola composta dall’avverbio “male” e dal verbo “dire”, indica l’abitudine a dire male di qualcuno o qualcosa. Sostituendo l’avverbio con il suo opposto, abbiamo la definizione di benedicenza: abitudine a dire bene di qualcuno o qualcosa.
Allargando il campo semantico possiamo far rientrare la maldicenza nel più diffuso costume del dire male, a prescindere dall’oggetto del discorso. “Il parlare scorretto non è solo cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”, diceva Socrate (prossimo alla morte) a Critone. Quando la scorrettezza non è solo linguistica, ma anche morale, quando le parole hanno lo scopo di dileggiare, diffamare, distruggere, il male è duplice e letale.
In occasione del conferimento del Premio “è Giornalismo” 2023 (l’unico che abbia accettato nella sua vita), papa Francesco ha parlato di quattro peccati del giornalismo: la disinformazione, la calunnia, la diffamazione, la coprofilia. Due di questi, calunnia e diffamazione, sono declinazioni della maldicenza. Fin dall’inizio del suo pontificato Francesco è stato attento all’uso della parola; ha condannato maldicenza, pettegolezzo, chiacchiericcio, definendoli gravi peccati sociali; non un malcostume, ma un peccato, il quinto. Le parole possono uccidere. Agisce come un virus, è contagiosa, la parola scorretta linguisticamente e moralmente: non comunica (non mette in comunione), isola; non informa, deforma; non crea, distrugge.
Nella sua lezione sull’esattezza Italo Calvino parla di “un’epidemia pestilenziale” del linguaggio e invita a trovare gli anticorpi nella letteratura. Quelle di Calvino non sono lezioni di vita né tantomeno di morale. Lo scrittore non ha in mente la maldicenza, ma ha a cuore il potere della parola esatta, leggera, molteplice, rapida, visibile: di una parola creativa, che agisce positivamente sulla realtà e la trasforma, la rende più umana.
“L’umano arriva dove arriva l’amore”, scrive Calvino in La giornata di uno scrutatore. E l’amore arriva anche attraverso le parole. C’è una definizione bellissima di Raimon Panikkar: ogni parola è una “quaternità perfetta di un parlante che parla a qualcuno emettendo alcuni suoni carichi di senso”. Per il teologo e filosofo, esperto di dialogo interculturale, ogni parola è una parabola, un processo che ci mette in relazione con il nostro interlocutore. La parola è relazione, di più, è un insieme di relazioni: tra parlante, ascoltatore, suono, senso. Quando si spezza una di esse, la parola perde il suo spirito vitale e creativo. Invece di creare relazioni, le distrugge. Diventa nociva, infetta.
È quello che accade con la maldicenza. Se la maldicenza è il virus, la benedicenza è la cura. Dovrebbe diventare costume, cultura contrapposta a quella della maldicenza. I suoi effetti sul singolo e sulla società sono etimologicamente salutari (nel senso della salus=salvezza, incolumità, integrità, salute), dunque salvifici. La parola benedicente vede nell’altro il positivo e lo mette in luce. Illumina le sue azioni, le sue parole, la sua umanità (magari ferita), vi attribuisce valore e dignità.
Può agire come un pharmakon nella sua accezione positiva di significato (non come veleno), può aumentare l’autostima, la fiducia. Non stiamo parlando di una gentilezza stucchevole, di circostanza, dunque falsa. La parola benedicente è onesta, autentica. A volte occorre un’attenzione fine per cogliere il positivo dell’altro, perché il bene predilige la modestia, il nascondimento (“non si vanta”, “non si gonfia”, scrive San Paolo), e spesso è sommerso da ciò che bene non è. La parola benedicente induce l’altro – per empatia, per i neuroni specchio – a fare altrettanto. Crea un clima di rispetto e stima. Edifica il singolo e il corpo sociale. Lega.
San Paolo, che aveva a cuore la salute delle prime comunità cristiane, così esortava i romani: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno. Gareggiate nello stimarvi a vicenda”. Legava l’amore (la sua idea fissa, la sua follia: “Oh se poteste sopportare un po’ di follia da parte mia!”) alla stima reciproca, che si costruisce attraverso la benedicenza.
La benedicenza, se la pensiamo come parola derivata dal verbo benedire, può essere praticata non solo verso gli altri, ma anche verso le cose, il mondo in cui ci è dato di vivere. Benedire la propria vita – quello che possediamo, quello che abbiamo perso, quello che ci è accaduto – benedirla dicendone il bene. Un gesto sacro che può praticare ogni uomo, senza essere sacerdote; un gesto sacro e semplice, che illumina le cose. Questo tipo di benedicenza nasce da una luce interiore (“Siete tutti figli della luce e figli del giorno”, ancora San Paolo), che ha molto a che fare con la gratitudine.
Mi viene in mente un bel racconto breve di Giuseppe Pontiggia intitolato il Residence delle ombre cinesi. Il protagonista, Paolo Coda, ha vissuto 70 anni in condizioni di salute e lavoro precarie, finché riceve un lascito inatteso di un ricco misantropo, di cui ha curato i cani. Viene dunque accolto in una lussuosa casa di riposo, dove scopre insperate risorse. La sua salute migliora. Inizia a praticare sport, conosce l’amore. Arrivato a 108 anni è ormai un fenomeno: riceve medici, intervistatori, telefonate, regali, lettere. Tutti fanno il tifo per lui, perché superi il record dei 120 anni. Nella chiusa del racconto, un attimo prima della sua inevitabile (per quanto differita) dipartita, Pontiggia lo ritrae in preghiera, suggerendo il segreto della sua longevità; una preghiera che non è richiesta, ma contemplazione silente e luminosa, gratitudine:
“Da ultimo, pregando, non chiedeva più nulla. Ringraziava. Ringraziava commosso, lieto, tenero, guardando dalla terrazza gli alberi agitati a distanza da un vento silenzioso. Sapeva che ogni giorno ogni ora ogni attimo erano un dono. E sapeva che ringraziare era prolungare la vita.
Una notte fu abbagliato da una luce. Non veniva da nessuna parte, ma aveva invaso la stanza. Dov’era il buio che aveva tanto temuto? Aprendo gli occhi si accorse che li chiudeva”.
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