Esercizi di… ascolto
Se fossi un allenatore, inizierei dal riscaldamento per poi passare a esercizi di difficoltà crescente. Non sono un allenatore e non seguo un programma. Mi muove un’urgenza. Inizio da un esercizio difficile (saranno tutti difficili). Esercizi di ascolto.
Rimpiango il 1997: il mio primo anno a Varsavia. Era gennaio, la colonnina del mercurio indicava meno venticinque gradi nelle ore fredde, meno diciotto in quelle calde. Così per giorni, mesi. Superammo lo zero in aprile. Il sole latitava: sorgeva alle 8:00 e tramontava alle 15:00. Non amo il freddo né tantomeno il buio. Cosa rimpiango?
Studiavo il polacco, lingua avara di gratificazioni (come il violino: mesi prima di tirar fuori una frase musicale). Quando qualcuno mi rivolgeva la parola, facevo un grande sforzo per capirlo. Cercavo di rispondere con frasi brevi, il meno scorrette possibile. Parlavo poco e ascoltavo molto. Non potevo fare altro. Poi ho imparato a parlare e mi sono affrettato a esibire il violino. Volevo dire tutte quelle cose che fino ad allora non ero stato in grado di dire. Dire, dire…
Rimpiango quel tempo in cui potevo solo ascoltare. Allora non sapevo quanto fosse necessario. Oggi ne ho la riprova. Non devo guardarmi intorno, basta guardarmi dentro. Il settanta per cento delle mie energie è orientato a produrre parole adeguate, precise, gentili, belle; il trenta ad ascoltare quelle altrui. Nel migliore dei casi sessanta contro quaranta. Al progresso (auspicabile) nella capacità di trovare le parole giuste non corrisponde automaticamente un incremento di ascolto. Si rischia di diventare sempre più bravi a parlare (a scrivere) e di conoscere sempre meno le persone a cui ci si rivolge, perché non le si ascolta abbastanza. Non si sa che cosa pensino, provino, temano, non si sa se le nostre parole siano necessarie, utili, o solo belle, dunque vane.
Occorre una sorta di regressione. Quando qualcuno ci parla, bisognerebbe immaginarsi sprovvisti di parole, studenti alle prime armi di una lingua straniera: capaci solo di ascolto.
Si può provare a farlo come un esperimento o un gioco, e vedere cosa succede.
Può succedere che l’altro magari continui a parlare, completi la frase precedente, la corregga. Può succedere che l’altro si “parli attraverso di noi” (per usare le parole di Rita Charon, fondatrice della Medicina Narrativa), comprenda le sue stesse parole, mentre noi risuoniamo come “anfora al vento”. È una bella immagine, “l’anfora al vento”: forma vuota che si lascia riempire.
L’ascolto ha bisogno di un deficit di parole, idee, risposte.
Mi ha colpito un passaggio dell’Enciclica Fratelli tutti: «La frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle mentre ancora non ha finito di parlare».
Molte discussioni, incomprensioni (soprattutto quando ci si conosce bene) nascono da un ascolto abortito. L’altro ci rimane male, si offende (giustamente), anche se davvero a metà del discorso abbiamo già capito cosa vuole dire, perché non è questo il punto: l’altro non vuole essere capito, vuole essere ascoltato. Vuole essere accolto.
L’ho scoperto nel rapporto con i pazienti psichiatrici: è una delle lezioni della follia. Ascoltavo per ore discorsi sconnessi, esplosi, frammentati, taciuti. Non avevo gli strumenti per capirli, conoscevo troppo poco quella lingua straniera. Ma potevo ascoltare, senza la pretesa di capire. Disarmato di logos (di ragione che vuole imprigionare la s-ragione, direbbe Foucault) potevo accogliere. E l’accoglienza generava relazione, l’ascolto era terapeutico.
L’ascolto fa bene, genera fiducia. Soprattutto l’ascolto disarmato, disarmato e attento.
Sembrano atteggiamenti opposti: passivo il disarmo, attiva l’attenzione. Invece sono simili, se intendiamo l’attenzione come la intende Simon Weil: non “una sorta di sforzo muscolare”, una contrazione di muscoli, mentre qualcuno parla, bensì lo sforzo passivo che «consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto».
In un convegno di Medical Humanities ho sentito uno psicoterapeuta parlare dell’importanza del mostrare attenzione al paziente con lo sguardo, il tatto, la postura. Sembrava una cosa saggia, ma poi ho pensato a Simone Weil. C’è una grande differenza tra mostrare attenzione ed essere attenti. Il primo è un mestiere, il secondo è un modo di porsi. Una terapia in cui si mostra attenzione è (paradossalmente) una terapia disattenta; c’è un dispendio di energie nello sforzo del mostrare (predominante nella nostra società).
Per Simone Weil l’attenzione è una cosa molto seria, ha a che fare con l’etica: «Ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone».
Beati gli attenti, beati gli ascoltatori, mi viene da dire.
Esercitando l’ascolto, esercitiamo una beatitudine. Facciamo un po’ di spazio e silenzio, quanto mai necessari. L’altro può dirsi, ascoltarsi. Potremmo fare finanche un po’ di luce, se ascoltassimo non solo quello che dice, ma anche quello che tace. C’è un discorso taciuto per ogni discorso pronunciato: un discorso ombra. Quello che l’altro non ha il coraggio di dire, per timore della nostra reazione, per mancanza di fiducia (in sé o in noi). Quello che l’altro non sa di poter dire, finché qualcuno non ascolta il suo silenzio.
L’ascolto attento fa luce sul discorso ombra. Lo illumina. L’altro può vedersi.
Esercizio difficile e beatifico, l’ascolto. Gli effetti meritano lo sforzo (passivo).
Spazio, silenzio, luce. Per riappropriarci della parola-ascolto: del logos.
«L’udire autentico appartiene al logos» (Martin Heidegger).