Esecutore, non profeta

La morte del fondatore della Apple è stata giustamente salutata con un’enorme risonanza mondiale. Con qualche eccesso e qualche equivoco  
Simbolo della Apple

È morto Steve Jobs. Un nome, un programma: lavori a tempo pieno, al plurale, jobs. È stato osannato come un genio, un artista, un vate del futuro digitale, e soprattutto un profeta. Sostituisce altri maestri nel cuore della gente, soprattutto leader politici e religiosi, di cui non si può far economia.

 

Jobs è stato un segno dei tempi, la realizzazione più completa della profezia, quella vera, di Marshall McLuhan: «Il medium è il messaggio». Con il fondatore della Apple, più che con mille altri epigoni del maestro canadese, tale profezia s’è infatti avverata. L’iPod, l’iPad, l’iPhone, l’iCloud sono diventati realmente “messaggio”, cioè, tutti insieme: obiettivo, contenuto, godimento, compagno di vita e di solitudine, filosofia e teologia dell’esistenza. Un idolo? Uno strumento che distoglie da altri obiettivi? Way of life consumista? Se ne discute apertamente.

 

Lo stesso credo di Jobs, presentato magistralmente nell’ultima sua lezione lectio magistralis, sintetizzabile nello slogan «siate folli, siate affamati», è uno schiaffo alla tradizione benpensante dell’Occidente (cattolico?) –, tanto più che il fondatore della Apple si professava buddhista. Trionfo della cultura pop così come profetizzato (con un certo timore) da McLuhan: non per nulla la mela lo ricollega indissolubilmente alla prima Apple, casa discografica dei mitici Beatles amati e venerati dal fondatore della seconda Apple. Il lato spettacolare e quello ludico della vita grazie a Jobs hanno avuto la loro vittoria assoluta.

 

Ma forse questa morte risulterà anche la fine di questa stessa cultura pop, giunta alla sua massima espressione, in cui forma e materia hanno trovato mirabile sintesi. Forma e materia insieme oggettificate. A scapito del significato, del contenuto, del messaggio intrinseco ed estrinseco, direi del senso ontologico delle cose. La forma, privata del suo significato più profondo, in qualche modo è stata la tomba della stessa rivoluzione digitale coniugata alla cultura pop.

 

Steve Jobs è stato un capitalista, un grande capitalista, con un’azienda che vale più di 138 miliardi di dollari e un patrimonio personale valutato a 10 miliardi. Un capitalista illuminato, certamente, a suo modo modesto, senza tanti grilli per la testa, senza ostentazione di ricchezze, senza pretese ideologiche, senza la boria dei nuovi ricchi. In qualche modo un capitalista etico. Un uomo al quale avremmo affidato i nostri figli e le nostre figlie. Ma pur sempre un capitalista, e individualista.

 

Bene, benissimo quindi celebrare il genio industriale e comunicativo, digitale. Meno bene canonizzarlo come un nuovo Mosè che alza dinanzi al suo popolo – il mondo dei fanatici Mac – le tavole della legge, cioè l’iPad (furbizia mediatica quella di riciclare l’iconografia veterotestamentaria!). Con lui siamo passati dal “disincanto” di un mondo militante e impegnato a cambiare la stessa società al “nuovo incanto” di un altro mondo, questa volta più leggero, volatile, spensierato, dall’impegno individuale ed effimero, senza illusioni. Jobs non è stato un profeta, ma il perfetto realizzatore della profezia di McLuhan, il magnifico interprete del credo pop. Non a caso in questi giorni cade il 100° anniversario della nascita del vate canadese. Un secolo giusto giusto, forse non a caso terminato con la morte di Jobs.

 

Ma se ne discuterà ancora.

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