Ero fatto per un’altra “arte”

Sono nato in un piccolo paese sul Gargano, Cagnano Varano, quinto di sette figli. Mio padre era operaio e quanto a mia madre… beh, lei aveva fin troppo da fare con tanti di noi da accudire. Verso la fine degli anni Sessanta nel Sud Italia molte famiglie numerose come la nostra, alle prese con la disoccupazione, lottavano per la sopravvivenza. Con tanti altri, anche papà fu costretto a emigrare prima in Germania, poi in Svizzera. Durante l’anno appariva fugacemente soltanto d’estate per poi sparire. Di lui, uomo dalla forte personalità che aveva avuto sempre tutto sotto controllo, avvertivo la mancanza specialmente quando ci riunivamo a tavola. A scuola poi, nei temi del tipo Racconta di tuo padre, non sapevo mai cosa scrivere su una figura per me così evanescente, per cui mi inventavo degli episodi, dotato com’ero di vivace fantasia. Viceversa crebbe più intenso il mio rapporto con la mamma – una creatura gentile, silenziosa e con spiccate doti di altruismo – e i miei fratelli e sorelle. Avrò avuto circa nove anni, ed ero un bambino sempre allegro e servizievole. Capace però, durante la giornata, anche di sostare in chiesa davanti al Crocifisso, attratto soprattutto dal suo volto chino. Un’estate mio padre tornò dall’estero portandomi per la prima volta un regalo: una pistola di plastica. Felice per il dono (non avendo mai avuto giocattoli, li costruivo da me con materiali di recupero), lo fui meno per l’oggetto. Lo stesso giorno scambiavo quella pistola con il piccolo crocifisso che uno dei miei amici aveva tolto dal rosario della nonna. Quando mio padre seppe che fine aveva fatto il suo regalo, mi rispose irritato: È l’ultimo che hai ricevuto!. Difatti, la volta successiva, non mi toccò niente; portò invece tante stecche di sigarette. Senonché a mia sorella venne l’idea di sottrarne un pacchetto per il fidanzato, che a mio padre non piaceva mentre io lo trovavo buono e gentile, qualità che sempre mi colpiscono in una persona. Successe il terremoto: chi aveva potuto far sparire quelle sigarette visto che nessuno fumava a casa nostra? Per mettere un po’ di pace, mi addossai la colpa, dicendo di averle regalate a un amico per suo padre. Di nuovo papà se la prese con me: Come farò con te? Non cambi mai! Se continui così, non combinerai mai niente di buono nella vita. Cosa determinò il mio allontanamento dalla chiesa? Intanto, un ceffone del mio parroco per avergli rotto un cesto di uova avute in regalo durante la benedizione pasquale delle case. Ma vi contribuirono anche, gli anni seguenti, nuovi amici e nuove esperienze. I problemi del paese mi facevano riflettere: ora frequentavo un gruppo di giovani di Lotta Continua, la sinistra radicale. Da loro mi sentivo capito ed ero sempre in prima linea nelle loro lotte e negli scioperi. Di Chiesa non volevo sentir più parlare, ma custodivo in fondo al cuore l’antico rapporto con Gesù: era il mio segreto, qualcosa di molto personale. In occasione di un viaggio a Firenze per far visita a un mio cugino che lì frequentava l’università, la meravigliosa chiesa romanica di San Miniato al Monte risvegliò in me quell’amore per l’arte che le circostanze avevano assopito. Mi mancava l’ultimo anno per la maturità. Decisi così di lavorare a Firenze e terminare allo stesso tempo gli studi in servizi sociali. Data la mia passione per il cinema e il teatro, mi iscrissi anche a corsi di danza, a una scuola di recitazione e ad una di espressione corporea col maestro Orazio Costa. Giorgio Albertazzi, incontrato durante un provino alla scuola di teatro di Vittorio Gassman, mi disse: Ho visto le tue foto e il tuo provino; tu dovresti fare dal cinema, sei molto fotogenico . Sognavo in qualche maniera di fare l’attore. Tanti, del resto, confermavano le mie capacità interpretative. Un giorno, in un caffè, venni avvicinato da una signora che gentilmente mi propose di farle da fotomodello. Ci mancava giusto questo!, risposi io. Dopo pochi mesi, comunque, sui giornali di moda si potevano vedere le mie foto per alcuni stilisti italiani. Di un altro fotografo all’epoca famoso, Carlo Cantini, apparve su di me un ampio servizio fotografico per una rivista tedesca: un’occasione, forse, per farmi notare dal mondo del cinema. Ricorderò sempre il freddo per me eccessivo di quella permanenza a New York. Fu nel 1981: sei mesi trascorsi a perfezionarmi in danza e teatro tra spot pubblicitari e qualche spettacolo. Nella vita frenetica ma al contempo molto stimolante della metropoli ebbi modo di frequentare artisti e gente di spettacolo in occasione di feste private, all’epoca molto di moda. Fra gli altri, lo scultore australiano Paul Greneway, che mi propose di posare per un mezzobusto, e il grande arredatore Michael Hebert, che mi invitò all’inaugurazione di un suo lavoro, l’attico di Robert De Niro. Malgrado tante opportunità, tornai a Firenze, dove ripresi i miei contatti con il mondo del teatro e della danza e portai in giro per la Toscana alcuni spettacoli. Una giornalista fece pubblicare alcune mie fotografie su Panorama e l’Espresso, scrivendo di me: Ecco il volto nuovo per il cinema italiano, un ragazzo arrivato dal Sud. L’avvenire mi si prospettava dunque pieno di promesse, quando accadde qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita radicalmente. Quello stesso anno una mia amica di infanzia, anche lei a Firenze per i suoi studi, mi invitò al Familyfest che avrebbe avuto luogo a Roma. Accettai più che altro per non deludere una persona che stimavo. Inspiegabile, nel Palaeur, l’attrazione suscitata da una persona come Chiara Lubich, che trovai elegante e al tempo stesso così semplice. Ciò che aveva detto a una folla intera non sembrava forse destinato solo a me? La sua carica interiore mi sconvolse tanto da farmi dire: Se mi chiedesse di seguirla, non ci penserei su un attimo. Tornato a Firenze, non riuscivo a fare più niente, folgorato dall’Ideale dell’unità propostomi da Chiara. Non ci voleva altro per mettermi a viverlo con altri giovani dei Focolari. È di quel periodo l’annuncio che avevo superato la prima selezione di un provino cinematografico ed ero invitato negli studi della Nikosfilm. Che fare? Mille dubbi mi assalivano. Finalmente mi decisi a partire per Roma, dove feci un altro provino. Nell’attesa del risultato, mi impegnai senza riserve nella vita del movimento a Firenze: avevo trovato ciò che da sempre rincorrevo, che intuivo essere la mia realizzazione. Ma allora cosa era più importante: una vita per gli altri all’insegna dell’unità o la mia carriera d’attore? Messo alle strette da un invito ad un colloquio con un regista a Roma e dalla successiva offerta di una parte in un film con Gianmaria Volontè, chiesi tempo per pensarci. Finché la risposta di Chiara ad una mia lettera in cui le raccontavo tutto di me mi diede la carica necessaria per cambiare rotta riguardo alle scelte future. Nel frattempo era cambiato anche il difficile rapporto con mio padre. Da che ero considerato lo strano della famiglia, ero diventato punto di riferimento e l’orgoglio dei miei. La separazione di una mia sorella sposata a Roma e la morte di suo figlio appena nato significarono per me l’impatto col volto tragico di quel Dio che avevo scelto crocifisso. Disperata per aver visto distrutta, nel giro di un mese, la propria famiglia, lei mi telefonò alle tre di un mattino. Per condividere il peso di quella croce, partii immediatamente: la trovai nella desolazione, simile a Maria che ai piedi della croce piange il figlio morto. Mi buttai a capofitto nel suo dolore senza tralasciare alcun particolare, cercai di sostenerla in tutti i modi, anche economicamente. La tua presenza – mi confidò lei in seguito – è stata la mia salvezza; ai miei occhi non sei stato solo un fratello, ma anche madre e padre. Grazie a te, ho ricominciato a vivere. Durante quegli anni avevo cercato di mettere in pratica l’arte di amare appresa da Chiara, ne avevo fatto il mio pane quotidiano. La sensibilità per i problemi sociali mi portò poi a lanciarmi nell’avventura di un mondo tutto particolare, lontano dalla realtà di quello normale: la disabilità mentale. Ormai da quindici anni lavoro con i ragazzi autistici, sfruttando il mio diploma e le passioni di sempre: la danza e il teatro; coinvolto fino al collo nel dolore delle famiglie che vivono la malattia dei propri figli nella solitudine. Per approfondire le problematiche relative, mi sono iscritto a suo tempo anche alla facoltà di Scienze Sociali. Oltre che con questi ragazzi che sento miei, oggi lavoro con l’Associazione cattolica internazionale al servizio della giovane, che si occupa della marginalità sociale delle donne, presso la stazione di Santa Maria Novella. Di tutto quanto mi è capitato nella vita sono grato a Dio. Immenso il dono ricevuto: conoscere ed essere canale di quell’amore che tutto dà e niente aspetta. Non ho rimpianti e immagino il mondo come un palcoscenico che necessita di attori veri, capaci di trasmettere la gioia sperimentata nel vivere il Vangelo.

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