Ernani da non dimenticare
Vale la pena non perdere le ultime repliche – il 10, 12 e 14 – dell’opera verdiana al Teatro dell’Opera di Roma. Il motivo è presto detto. Si tratta di una rilettura del lavoro giovanile di Verdi che non è retorico definire “storica”, dopo quelle degli anni Cinquanta e Sessanta, affidate a direttori come Schippers e Mitropoulos.
Ernani, quattro atti di Francesco Maria Piave tratti dal dramma omonimo di Victor Hugo, la "prima” a Venezia nel 1844, è opera di un'energia eccezionale. Ferrigna, notturna, selvaggia e lirica, vede quattro protagonisti indomabili: il bandito Ernani, innamorato di Elvira come il rivale don Carlo – futuro Carlo V – e il vecchio Silva.
Ha fatto bene Hugo de Ana nell’allestimento romano a inscenare un unico ambiente, una architettura tardocinquecentesca, “manierista”, come i costumi, dove far svolgere l’azione: l’opera in effetti è un solo blocco diviso in alcuni momenti, e il dinamismo è più nella musica che sulla scena.
Strutturata alla Donizetti, cioè con cori, cavatine e cabalette dei personaggi, concertati, vibra di un furore che è tipicamente verdiano e che riscatta le parti intermedie, di raccordo. L’amore impossibile porta alla morte di Ernani, grazie alla vendetta implacabile di Silva: è un romanticismo estremo, di moda nei teatri degli anni Quaranta dell’Ottocento.
La musica così viva necessita di interpreti adeguati nei ruoli impervi per la voce e per niente scontati per il coro e l’orchestra.
Riccardo Muti, che con quest’opera inaugurò la stagione scaligera nel 1982 con Mirella Freni e Placido Domingo, questa volta si è avvalso di un gruppo di giovani talenti con cui ha svolto un lavoro di affinamento, di scavo interpretativo straordinario, di cesello. Il risultato è un tenore come Francesco Meli, Ernani dalla bella voce fresca, che sfila dei pianissimi – memorabile il terzetto finale – oggi quasi mai udibili in teatro, accanto ad accenti eroici e facilità negli acuti. Un Luca Salsi, don Carlo fiero e caldo, che all’inizio del terz’atto canta “O de verd’anni miei” e il successivo concertato con l’accompagnamento dell’arpa, modulando la voce con toni accorati e nobili; Tatiana Serjan, Elvira appassionata, che dà il meglio nell’ultimo atto, in un ruolo massacrante per la voce; e il grande Ildar Abdrazakov, la cui aria “Infelice e tu credevi” nel primo atto schiude un silenzio intenso in sala per la flessuosità del canto, il pathos contenuto e la bellezza del timbro: un Silva, basso splendido.
Come si nota, l’opera è attraversata da momenti poetici intensi. Non si può forse dire che sia in ogni pagina riuscita, ma quello che Verdi giovane offre nello scatto all’unisono delle voci di tenore e soprano, nel dolore del basso, nella passionalità del baritono e nella concitazione e concentrazione drammatica, è abbastanza per parlare di quasi-capolavoro.
Onestamente, gran merito di tutto ciò va a Muti che, oltre che sui cantanti, ha svolto con l’orchestra un lavoro finissimo. L’orchestra è splendida: emergono il canto lucente dei legni, gli impasti degli ottoni – mai una sbavatura anche minima –, la flessuosità ondulata degli archi (la marcia dei congiurati all’inizio del terz’atto, le scale luminose dei violini), il rombo delle percussioni. Non si può più parlare di orchestrazione semplificata o rozza di Verdi in quest’opera, perché Muti dà il giusto rilievo al canto di ogni sezione dell’orchestra che “canta” con gli interpreti, grazie a crescendo e a diminuendo accentuati, così che la partitura appare piena di colori: non c’è un intervento orchestrale che non sia intonato con il palcoscenico. Ma bisogna saperlo trovare e far emergere, così da far vedere che cosa sia Ernani, la quinta opera di Verdi. Muti, occorre dirlo ancora una volta, fa un lavoro di pulizia vocale e strumentale storico, certo il migliore in questi ultimi anni.
Spettacolo musicalmente bellissimo, con un coro in una delle sue migliori performance. Da non perdere.