Erdogan, Ben Alì e Mikati (e gli scacchi)

Il Mediterraneo non ha pace. Novità vengono da diversi Paesi, alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Manifestazione

Dopo decenni di simil-immobilismo, o piuttosto, di stallo, il Mediterraneo conosce fibrillazioni impensabili sino a pochi mesi fa. La Turchia ha eletto Erdogan, con un voto chiarissimo nella sua direzione: confermare la fiducia al premier dell’islamismo soft, ma senza dargli carta bianca, al punto che Erdogan dovrà fare i conti con l’opposizione per poter modificare la costituzione. La Turchia s’allontana con questo voto dall’Unione europea, avendo capito che la sua forza politica, economica e culturale può diventare assolutamente strategica nella regione, e anche oltre. Pur senza dimenticare di leggere la storia, allontanando ogni tentazione egemonica, appare un bene che nella regione mediorientale emerga una forza stabilizzatrice.

 

Le “primavere arabe” nel frattempo vivono momenti diversi: se in Siria la situazione rischia di sfuggire di mano – l’esercito “avrebbe” riconquistato Jisr al-Shughur, mentre incidenti sarebbero in corso in altre città –, lo scontro appare sempre più di difficile decifrazione, anche per la rivalità crescente tra sunniti e alawiti, etnia cui appartiene il presidente Assad.

In Egitto, invece, cresce l’ostilità verso i vicini israeliani: dopo la riapertura parziale del valico di Rafah verso la Striscia di Gaza, il Mossad viene accusato di fomentare ad arte le rivalità tra cristiani e musulmani.

La Tunisia da parte sua pare avviata verso la democratizzazione, grazie anche a processo di Ben Alì, che comincia il prossimo 20 giugno.

E un posto a parte mantiene il Libano, che sembra aver raggiunto un accordo tra le diverse parti politiche per un governo di coalizione guidato da Mikati.

 

In Libia continua la sterile campagna militare contro un Gheddafi, che non cessa di usare della sua immagine per irridere gli attaccanti: questa volta fa finta di giocare a scacchi mentre gli F16, i Mirage e i Tornado scaricano bombe sulla capitale! La guerra, lo si sapeva, sarebbe stata lunga, anche perché gli esperti di questioni militari sapevano bene che non poteva essere risolta se non con interventi di terra, visto che i bombardamenti aerei e poi quelli appoggiati dagli elicotteri non possono bastare. Dice il papa: «Il dialogo prevalga sempre sulle armi». Come una voce biblica di un saggio che grida nel deserto.

 

Dell’annuncio di Obama e del G8 di Deauville di un grande piano di aiuto ai Paesi arabi attraversati dalle fibrillazioni di libertà da febbraio in qua non si hanno più notizie. Chi l’ha visto? L’Unione europea continua a non sapere cosa fare, e pare che anche gli Stati Uniti stiano a vedere come andranno le cose, prima di investire nella regione. Peccato, lo ripetiamo: sarebbe il momento propizio per far pesare nell’incertezza della situazione la storia profetica di un continente, dell’Occidente, come erano riusciti a fare Schuman, Adenauer, De Gasperi. Tempi così lontani, ora le preoccupazioni si restringono, nella miopia generale, ai confini patri. Da proteggere e militarizzare. Mentre invece bisognerebbe allargarli con la forza della cultura sostenuta dall’economia.

 

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