Erdogan affascina ancora molti, non solo in Turchia
Dopo 10 anni da primo ministro (2003-2014) e 10 da presidente della Repubblica di Turchia (2014-2023), Recep Tayyip Erdogan è stato rieletto capo dello Stato per la terza volta, fino al 2028. Ha ufficialmente ottenuto, anche se questa volta al secondo turno, oltre il 52% delle preferenze rispetto al candidato dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, che si sarebbe fermato a meno del 48%, nonostante i pronostici della vigilia lo indicassero come vincitore. Al Parlamento la maggioranza guidata dall’Akp (il partito del presidente) ha ottenuto la maggioranza al primo turno, sebbene con una manciata di deputati in meno rispetto alla precedente legislatura.
«La nostra gente ci ha dato ancora fiducia, sarà il secolo della Turchia», ha annunciato Erdogan da un autobus scoperto, rivolgendosi alla folla dei suoi sostenitori. Il “secolo” a cui si riferiva è indubbiamente quello della repubblica fondata dal padre dei turchi (atatürk) Mustafa Kemal e da lui presieduta per 15 anni, dal 1923 fino alla sua morte nel 1938. La sensazione è che questo riferimento al “secolo” della Turchia rappresenti per Erdogan una rivendicazione di continuità con la “paternità” del fondatore, ma allo stesso tempo anche una proiezione verso un futuro in cui recuperare, rinnovandola, l’identità ottomana e islamica.
Su questo tasto, sul consenso intorno all’identità islamica, di cui Erdogan è da sempre paladino, ci sarebbe molto da dire. Ne parla anche Chiara Pellegrino in un articolo molto interessante su oasiscenter.eu, rifacendosi ad un noto detto “napoleonico”: «Non si conduce un popolo che mostrandogli un avvenire: un condottiero è un mercante di speranza». La ricercatrice della Fondazione Oasis sottolinea inoltre l’ampio sostegno a Erdogan apparso in questi giorni anche su molta stampa araba: una novità rispetto al recente passato.
Una certamente discutibile ma intrigante chiave di lettura sul favore arabo ottenuto da Erdogan viene espressa da un articolo dell’iraqeno Muthanna Abdullah apparso su al-Quds al-Arabi: «Il problema dell’uomo mediorientale – scrive Abdullah – è che non può vivere senza un simbolo, che sia un capo tribù, un religioso, un leader politico o un capo di Stato». Oggi l’assenza di «simboli e di una leadership efficace e saggia [Abdullah cita come esempi: Nasser, Boumédiène, re Faisal, Arafat e Saddam Hussein] ha fatto precipitare la nazione in una spirale di disperazione» e gli arabi hanno finito per prendere come loro riferimenti politici Erdogan e Khamenei. Che arabi non sono, ma islamici sì, anche se a modo loro.
E in questa leadership carismatica, Recep Tayyip Erdogan è da sempre un maestro che conosce profondamente la gente, soprattutto quella che si è ancora una volta rivelata maggioranza in Turchia: la gente dell’Anatolia interna o delle sponde del Mar Nero, ma anche nel sudovest delle aree colpite dal terremoto del 6 febbraio, che da sempre vota Erdogan senza riserve. Il “sultano” ottiene invece sempre meno adesioni nelle grandi città (Istanbul, Ankara, Smirne, ecc.), lungo la costa egea e mediterranea e nel sudest curdo. Ma ancora una volta le adesioni al progetto dell’opposizione non sono state sufficenti, oltre a non aver probabilmente del tutto convinto la stessa candidatura di Kilicdaroglu. Neppure l’inflazione oltre il 40% su base annua (ma ha toccato anche l’80%) e una disoccupazione a due cifre sono riuscite ad intaccare la fiducia di molti nel carisma del leader turco.
Un elemento decisivo che ha inoltre favorito la rielezione di Erdogan è probabilmente la posizione del capo dell’Akp sulla questione dei rifugiati siriani presenti in Turchia, circa 4 milioni di persone. Dopo aver accolto e favorito in passato, per vari motivi, l’ingresso in Turchia di profughi siriani in fuga dalla guerra, e averli anche utilizzati per ottenere fondi dall’Ue minacciando di spingerli verso i Balcani, da qualche tempo Erdogan assicura i turchi, molti dei quali protestano per la presenza dei siriani, che intende riportarli in Siria. Anzi, qualche giorno dopo la vittoria elettorale, ha promesso che entro un anno ne verranno “rimpatriati” un milione, probabilmente nelle zone controllate dall’esercito turco, dove da anni si stanno allestendo per loro campi e residenze “protette”.
Dopo la prima tornata delle elezioni, e prima del ballottaggio, i profughi siriani sono stati al centro del dibattito politico, tanto che una parte della variegata opposizione che sosteneva Kilicdaroglu ha cambiato posizione sul tema, passando dalla difesa dei diritti dei rifugiati alla necessità del rimpatrio. Da parte dei profughi prevale il timore, pressati come sono fra discriminazioni e talora aggressioni in Turchia, confini europei blindati in Grecia e nei Balcani e mancanza di sicurezza in Siria, soprattutto per il rischio di accordi (caldeggiati da Russia e Iran) del governo turco con il regime siriano. E nella Siria di Assad i “dissidenti” o ritenuti tali scomparsi nel nulla in questi anni sarebbero parecchie decine di migliaia, secondo fonti internazionali abbastanza credibili.
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