Era un Ballo in maschera?
Il capolavoro verdiano a Macerata, nell'allestimento "prekennedyano" di Pier Luigi Pizzi
Verdi contro Wagner? Tristano e Isotta del musicista tedesco contro il Ballo del compositore emiliano? La domanda non è superflua. Il tema infatti è assai simile: l’impossibilità di frenare la passione amorosa. La quale porta inevitabilmente alla morte. In Wagner è uno struggimento soffocante che finisce in un nulla eterno dove l’amore inizia e muore al tempo stesso, distruggendosi quasi con la sua stessa forza. Che è poi il motore del mondo.
In Verdi, il governatore Riccardo che ama, riamato pur tra i rimorsi Amelia, moglie dell’amico più caro, non consuma l’amore se non nel cuore, tra rimpianti e dichiarazioni reciproche – all’inizio del secondo atto – che fanno scoppiare il sentimento in una maniera quasi insopportabile tanto è grande e vasto: ed è il momento in cui Verdi e Wagner si toccano, pur nell’assoluta diversità del linguaggio e della personalità.
La morte, in Verdi, giunge per mano dell’amico tradito, dopo una notte in cui è stato schernito dai nemici come un marito per nulla vigile. Arriva durante un ballo mascherato. Morendo, Riccardo confesserà all’amico che la moglie è pura, l’amore per quanto intenso ne ha rispettato il “candore”. Perdona a tutti, Riccardo, mentre il coro – anima immensa del cuore verdiano – si innalza (e qui Verdi e Mozart si affratellano) perdona anch’esso, pur in questa “notte d’orrore”. Frutto di un ”destino” ineludibile.
Musicato con una raffinatezza che nulla invidia a Wagner, delicatissimo nei colori, irruento nel dramma e sanguigno nelle passioni, eppure giocoso, umoristico ed anche orrorifico – la gamma delle sfaccettature drammatiche tocca un vertice scespiriano – il Ballo è opera che necessita di una concertazione sicura e attenta, di un allestimento che sia al pari della bellezza di una ispirazione che non cede di un millimetro al banale o al mestiere, di cantanti attori raffinati nel gesto come nella voce.
Non sembra che sempre tutto ciò sia successo, purtroppo, a Macerata che apriva la stagione proprio con questo titolo. Forse il direttore Daniele Callegari ha usufruito di poche prove, perché i cantanti potessero amalgamarsi tra loro e con il coro. Anche se Stefano Secco è un Riccardo corretto, Gladys Rossi un Oscar piacevole, Marco Di Felice un Renato sicuro. Ma la spigliatezza del testo verdiano, il suo fuoco sotto il brio, era ben altra cosa e la difficoltà dell’orchestra a rendere una partitura multicolore, lievissima, si è notata. L’allestimento di Pier Luigi Pizzi, definito “prekennedyano”, con auto, divise militari, maschere, non sembra abbia molto giovato – per quanto potesse essere plausibile come spettacolo a sé – alla musica, che talora diceva cose diverse da quelle che si osservavano in scena. Purtroppo, a volte anche i grandi registi dovrebbero ricordare che è sempre giusto andare d’accordo con la musica, e non viceversa.