«Era ora!», esclamò il saggio re
C’era una volta un re e una giovane fanciulla. Cominciano così tutte le favole che hanno una bella morale da insegnarci. In questa storia però non aspettatevi draghi e castelli, né sfarzo né merletti. La nostra protagonista è una giovane donna di 29 anni, di origine pakistana, colta e gentile nei modi, di religione musulmana, in grado di parlare cinque lingue, laureata a pieni voti, giornalista. Il suo nome è Hadia Tajik.
Da qualche giorno è stata nominata ministro della Cultura della Norvegia, la più giovane ministra della storia norvegese e soprattutto la prima musulmana. «Era ora», ha osservato il monarca norvegese Harald V, come a voler smorzare sul nascere ogni possibile polemica. «Era ora», ha esclamato il saggio re, come a dire che la nomina della ministra va salutata come una buona notizia, lungamente attesa.
Difficile resistere alla tentazione di guardare in casa nostra dove elementi di resistenza e arretratezza culturale ci confinano su posizioni di assoluta retroguardia.
Non che manchino in Italia giovani talentuose originarie dei Paesi più diversi, con le valige piene di titoli di studio, di libri letti, di lingue e professioni apprese, predisposte per natura alla politica e al servizio nella vita civile. Eppure, per quanti sforzi facciano, sono detentrici di uno status da cui faticano ad affrancarsi: restano immigrate per sempre. La diffidenza e la paura, il racconto sclerotizzato di un Paese in cui l’immigrazione è sempre un fenomeno recente e mai metabolizzato, ma anche la compassione e le prediche su quanto sia importante integrare e accogliere lo straniero e il diverso, sono gli inconsapevoli puntelli di una condizione immutabile nel tempo.
Forse perché fatichiamo a immaginare il mutamento, prima di tutto per noi stessi e per la nostra identità. Un bene da conservare in cassaforte, da proteggere con telecamere, da sotterrare perché non ci venga rubato.
In Norvegia a una giovane di seconda generazione viene affidato il ministero della Cultura, tra i ministeri quello più legato all’identità di una nazione. Una prospettiva che ci invita a non pensare alla cultura come a un’eredità immutabile e omogenea ma come a un sistema aperto e in evoluzione, soggetto a sempre possibili e feconde contaminazioni.
Abbiamo molto da imparare. Guardiamoci intorno. Il nostro Paese è pieno di giovani talenti. Hanno nomi che fatichiamo a pronunciare – Ouejdane, ‘Afef, Randa, Hadja –, intelligenze rapide e positive da mettere al lavoro, esperienze di vita da tradurre in progetti per tutti. Basta lasciarle volare.