“Entriamo” in carcere
Stoviglie in acciaio battute contro le sbarre della cella; sciopero del carrello, ovvero rifiuto del cibo passato dall’amministrazione; rinuncia al passeggio, all’ora d’aria, alla televisione. Sono tante le forme di protesta che dallo scorso 9 settembre continuano ad agitare sempre più numerosi istituti penitenziari del nostro paese. E tante sono le diatribe fra politici che spesso anziché affrontare i problemi hanno cercato giustificazioni e colpe della parte opposta. Si sa, in Italia siamo abituati a questi teatrini. Ma noi vorremmo, come detto nel titolo, “entrare” in carcere, guardarlo con gli occhi di chi ci vive e vi opera. Occhi a volte offuscati dall’odio, appesantiti dagli sbagli commessi, accecati dalla disperazione di non poter uscire dal tunnel nel quale è entrata la propria vita. Ma anche occhi che hanno rivisto la luce, che hanno aperto uno spiraglio, che sono stati capaci di accogliere, capire, amare, ridare la dignità perduta, riaccendere la speranza. Ho ancora vivo alla mente un incontro con quattro ex-detenuti. Vicende personali diverse, percorsi vari, uguale epilogo: l’incontro in carcere con un cappellano che è diventato loro amico, che li ha aiutati durante e dopo la detenzione, che ha trasformato la loro vita aprendo la possibilità di voltare pagina (vedi Città nuova 9/2001). E, per fortuna, non si tratta di casi isolati. Uomini che dalla dura esperienza del penitenziario hanno imparato la lezione, decisi a non ricadere nell’errore, desiderosi di lavorare, di essere considerati cittadini “normali” senza più quell’etichetta che ha eretto delle sbarre fra loro e la società spesso più fitte e impenetrabili di quelle delle celle stesse. E questo, forse, è uno dei punti di maggior sofferenza: l’incomunicabilità fra dentro e fuori, quasi che quelle mura erigessero un fossato il più delle volte invalicabile fra i “buoni” e i “cattivi”. Difficile attraversarlo in entrambe le direzioni. C’è però chi lo fa, con tanta buona volontà, con l’ostinazione quasi di chi sa che lì dentro ci sono uomini e donne uguali agli altri. Che magari hanno sbagliato e pure gravemente. Tanti potenziali “buon ladroni” però, che aspettano di incontrare qualcuno che dica loro: “Oggi stesso puoi ricominciare”. L’Italia conta 6.500 volontari che lavorano nelle carceri. Quasi uno per ogni dieci reclusi. E fra i loro compiti c’è anche quello di fare da tramite fra i detenuti e la società circostante. In questo senso le proposte proliferano, anche se a volte possono sembrare una goccia nell’oceano. Davvero interessante, ad esempio, l’iniziativa che coinvolge i detenuti del Centro di documentazione Due palazzi, che hanno realizzato un sito (www.ristretti.it) che offre informazioni utili a comprendere la vita del carcere, i problemi della devianza, del disagio, tentando di stabilire una linea diretta con la città. Così come esistono vari giornali dal carcere che i detenuti realizzano in collaborazione con i volontari: il coordinamento Nordest dei giornali comprende Prospettiva esse a Rovigo, Pensiero libero a Treviso, Microcosmo a Verona, I cancelli a Vicenza, Ristretti orizzonti a Padova, La ricerca – Il silenzio a Piacenza, Oltre il muro a Rovereto, La voce nel silenzio ad Udine. E non sono certo i soli esistenti. Le condizioni di vita Ma, è ovvio, non è questo fossato l’unico problema. Le proteste di quest’ultimo periodo comprendono un panorama vasto. Preoccupa, senza dubbio, l’aumento vertiginoso degli episodi di autolesionismo (6285), di tentati suicidi (825), di suicidi portati a termine (62 nel 2000 contro i 53 del 1999). Si parla di condizioni invivibili o quantomeno difficili. Basta partire dal sovraffollamento. A fronte infatti di una capienza regolamentare che stima in 41.730 unità la possibilità di ricezione dei 205 istituti di pena sparsi nella penisola, a luglio dell’anno scorso, stando ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) i detenuti risultavano essere 56.002, cioè ben 14.272 in più. La si- tuazione più difficile in Campania dove i detenuti sono 6.959 contro una capienza di 4920; in Veneto che ne conta 2424 anziché 1438; in Toscana, dove i posti regolamentari sono 2905 mentre i reclusi risultano 4190. Molto esplicito a tal proposito il racconto scritto da un detenuto di san Vittore, Ivano Longo: “Se i muri delle carceri fossero trasparenti, la prima cosa che si noterebbe sarebbe la lentezza con la quale procede l’esistenza lì dentro. Subito dopo ci si renderebbe conto che la matematica è un’opinione, vista la precisione con cui sono state incastonate le masse di esseri umani, nei piccolissimi spazi disponibili: sei uomini “blindati” nello spazio che, a mala pena, soddisferebbe i bisogni di uno e poi, via così, la stanza dopo la stanza, il piano dopo il piano, il raggio dopo il raggio”. D’altra parte i dati (vedi box) parlano da sé, dicono il bisogno, anzi l’urgenza di intervenire. Si può discutere sul come ma non sul fatto che sia opportuno o meno. E forse occorre partire da un principio di fondo. Che il carcere, cioè, deve svolgere in primo luogo una funzione riabilitativa. E che quindi tutto ciò che tende a renderne l’ambiente più umano non è una concessione ma un dovere di chi vi deve provvedere. Perché altrimenti anziché ridurla la criminalità, la si moltiplica. Cioè l’effetto esattamente contrario a quello desiderato e invocato. Gli affetti Dicevamo dei volontari. Che per esempio attuano da più parti un progetto messo a punto da Telefono azzurro. Recependo il disagio emerso da tanti bambini che si rivolgono al Centro, si è capita infatti la necessità di rendere meno traumatica per loro l’esperienza del rapporto con genitori che devono scontare una pena. Da qui l’idea di approntare degli ambienti adatti al gioco, le cosiddette ludoteche. Come spiega la dottoressa Anna Maria Pensa, responsabile nazionale del progetto il cui nome è “Bambini e carcere”, esso “prevede la possibilità che i bambini attendano giocando il momento del colloquio, laddove non è proprio possibile fare il colloquio all’interno della ludoteca, per poi andare a incontrare il genitore detenuto e tornare alla fine anche in ludoteca per poter continuare un po’ a giocare. Aiuta anche a staccarsi dal genitore, che rimane inevitabilmente dentro, in maniera meno traumatica”. Un progetto che si sta sviluppando. È infatti partito da Monza nel ’98 per poi arrivare a Torino, Bologna, San Vittore, Prato, Roma, Padova, Prato, Napoli. “Abbiamo infatti notato – continua la dott.ssa Pensa – che, per quanto riguarda l’assenza dei figli ai colloqui, non è la lontananza la causa principale, ma il non voler vedere i figli all’interno di spazi non adeguati, anche perché il papà spesso preferisce non dirlo che si trova in carcere. Invece abbiamo visto che, avendo a disposizione questo tipo di spazi, è aumentata tantissimo la presenza di bambini che tornano a rivedere il papà o la mamma dopo molto tempo”. Il lavoro Un altro aspetto di fondamentale importanza nel percorso rieducativo è il lavoro. Nell’ordinamento sarebbe un obbligo per chi ha una condanna definitiva, nei fatti è un optional, peggio ancora un miraggio. In carcere infatti lavora meno del 20 per cento della popolazione reclusa, in maniera saltuaria (anche solo una o due ore al giorno), con una retribuzione pari ai due terzi di quella che percepisce un altro cittadino che svolga uguale lavoro all’esterno. Inoltre per lo più si tratta di impieghi legati alla vita interna del carcere, non di vere e proprie professionalità utili ad affrontare la vita una volta fuori. Dal momento che spesso le esperienze lavorative precedenti sono di altro tipo. Qualcosa si muove anche in questo campo con proposte di defiscalizzazione degli oneri sociali alle imprese che offrono lavoro ai detenuti. Ad esempio a Rebibbia è stato istituito dal comune di Roma lo sportello C.I.L.O. (Centro di iniziativa locale per l’occupazione) col compito proprio di offrire un “servizio d’orientamento ed assistenza all’inserimento e reinserimento per detenuti o ex detenuti nel mercato del lavoro”. In pratica fornisce informazioni su concorsi pubblici, contratti di formazione lavoro, borse di studio, corsi di laurea e specializzazione . Così come la provincia di Milano ha finanziato un’associazione,Cercare lavoro”, che raggruppa cinque realtà del privato sociale, per la formazione, l’orientamento e l’inserimento lavorativo di detenuti ed ex. Come spiega la direttrice del progetto, Licia Roselli, “il vero problema con i datori di lavoro è l’inizio del rapporto. Di solito i detenuti sono visti con diffidenza e quindi bisogna organizzare incontri preventivi. Dopo il primo contatto i problemi diminuiscono”. Come diminuisce del 60 per cento la possibilità che il detenuto commetta un nuovo reato se riesce a trovare lavoro entro un anno dalla scarcerazione. Come si vede, dunque, molto si può e si deve fare soprattutto in fatto di prevenzione) ma tanto viene anche già fatto. Diversamente da tanti luoghi comuni che dipingono gli addetti alle carceri dai direttori a chi ha compiti di vigilanza ecc. – come persone sadiche quasi, impegnate nei maltrattamenti, bisogna invece evidenziare un grande impegno e molta buona volontà a migliorare le condizioni di vita dei reclusi. Persone che credono in quello che fanno, che rischiano, che pagano di persona. Per non parlare poi dei volontari che sono un apporto insostituibile. Il fatto è, semmai, che i problemi che si trovano ad affrontare sono talvolta più grandi di loro. Qui li abbiamo appena accennati e neanche tutti. Ma l’argomento non è certo esaurito in queste poche pagine. Chi c’è oltre le sbarre Rapporto tra posti disponibili e persone presenti (ogni 100 posti) – Italia: 134, Francia: 100, Spagna: 106, Norvegia: 90, Danimarca: 90. Tasso di detenzione nel decennio 1991-2000 (detenuti per 100 mila abitanti) – Italia: da 59 a 93, Germania: da 79 a 98, Olanda: da 44 a 90, Inghilterra-Galles: da 91 a 124. Caratteristiche popolazione carceraria – Totale: 56.002 – Stranieri: 16.948,Tossicodipendenti: 15.000. Durata delle pene – Inferiore ai tre anni: 62 per cento, fra tre e sei anni: 20 per cento, fra sei e dieci: 8 per cento, oltre i dieci: 9 per cento, ergastolo: 2,5 per cento.