Enrico Ianniello tra libri e tv
Enrico Ianniello, sei nella fiction A un passo dal cielo, una serie televisiva giunta alla sesta stagione, e appena conclusa. A cosa è dovuto questo grande successo di pubblico?
Penso a un paio di fattori: un grandissimo, voluto, ricercato senso di familiarità dei personaggi dei quali alla fine ti rimane l’idea che siano quasi dei tuoi parenti o amici; e l’altro fattore importante i posti in cui giriamo, i paesaggi, le montagne, anche perché l’Italia di montagna non è stata poi così tanto raccontata rispetto al mare. A maggior ragione in un periodo che abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, a causa del Covid e dei lockdown, vedere quei posti credo abbia rappresentato proprio una boccata d’aria pura.
Talento innato, quello dell’attore. Hai iniziato a 16 anni a calcare le scene, con, prima, un’esperienza in seminario. Cosa ti ha motivato a fare l’attore e non il prete?
È stata una sequenza temporale nell’arco di un anno, cominciata a 15 anni con 8 mesi di seminario, per mia scelta, senza nessuna forzatura familiare, né di altro tipo. Quell’esperienza credo sia stata una sorta di percorso apripista verso il teatro, verso una forma di rito di rappresentazione, o di rappresentazione intesa come rito. Era l’avvicinarsi a un aspetto intangibile dell’esistenza e provare a raccontarlo in qualche modo prima attraverso l’esperienza del seminario, poi − sempre all’oratorio − scoprendo il teatro amatoriale. Quando ho visto che ero capace, senza sapere come, di tenere l’attenzione di un pubblico, di farlo ridere e portarmelo dietro – facevamo la classica commedia napoletana −, ho capito che era quello che volevo fare nella vita. Ho frequentato un piccolo laboratorio teatrale e due anni dopo ho studiato alla Bottega di Gassman a Firenze.
Cosa ti è rimasto di quell’esperienza legata a una dimensione spirituale?
Fa parte della vita. Mi affascina anche il punto in cui quel mondo entra in contatto − e lo è sempre stato storicamente − con il teatro. Esso non è mai una manifestazione esclusivamente immanente ma, come il teatro più bello e anche la letteratura più bella, rimanda sempre a quello in cui la cosa che sta succedendo non è davanti a te ma sta da qualche altra parte, e quel muoversi in scena o nelle pagine la evoca, e ti rimanda ad altro, a qualcosa di imprendibile, di misterioso.
Spazi dalla televisione al teatro, al cinema, ai romanzi, alla traduzione. A cosa è dovuta questa varietà di interessi, di approcci?
Al grande entusiasmo, e al non essermi mai posto dei freni nel seguire le mie passioni, soprattutto quelle legate a forme di espressione artistica. Col tempo, riflettendoci, ho capito che tutto gira, sempre, intorno alla parola, cioè sono tutti mestieri che consistono in “giochi di parole”. Tradurre testi è un sommo esempio: far rivivere cioè in un’altra lingua quello che hai vissuto in un’altra nazione e in un altro idioma. Il teatro, per come lo faccio io, e dove mi trovo meglio, è un teatro comunque di parola. Credo di aver capito molte cose di me come attore quando ho cominciato a frequentare testi da tradurre e doverli poi mettere in bocca anche a degli attori, accenderli senza crear loro nessun problema.
Come nascono i personaggi dei tuoi romanzi? Sei un attento osservatore della vita degli altri, come fa il protagonista del tuo romanzo La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli)?
Assolutamente sì. Insieme a La compagnia delle illusioni e ad Alfredino laggiù (in uscita il 10 giugno) questi romanzi chiudono una trilogia la cui caratteristica è l’avere un personaggio centrale attorno al quale girano tutti gli altri, che sono come l’emanazione di se stesso. Cioè mi piace creare l’identità dei soggetti partendo dall’osservazione degli altri. Significa raccontare dei personaggi che accolgono le vite altrui e non le respingono mai, al punto anche da farsene mettere profondamente in crisi. Ci tenevo a queste storie di tre uomini catturati in quel momento della vita di noi di una certa generazione in cui ti accorgi che quel modo di guardare all’esistenza con grazia, innocenza, e purezza, è finito. E ti chiedi verso cos’altro stai andando? Forse ti stai trasformando in quel qualcosa di orribile che non volevi diventare? Questo è un po’ il percorso che mi porta poi alla creazione dei personaggi nella scrittura.
Nello specifico, cosa cerchi nell’osservare la vita degli altri?
Intanto di non giudicarla. Più osservi gli altri, più li frequenti proprio in termini di tempo, più fai fatica a sentirli alieni da te. Riconosci una serie di similitudini, e capisci che siamo tutti uguali, con qualche sfumatura diversa. Questo è un grande valore del teatro, perché solo attraverso di esso, per esempio, riesci a metterti veramente nella vita di qualcun altro. Cerco quindi di raccontare questa visione che, secondo me, oggi è un valore molto negletto, dove si arriva addirittura a vedere nell’altro il nemico.
Che messaggio hai voluto dare attraverso i due romanzi?
Non voglio dare messaggi. Non posso permettermelo. Cerco solo di mettere in piedi delle costruzioni godibili. In Isidoro Sifflotin, è una costruzione di carattere più musicale, legato a questo ragazzino che fischia, che trascorre tutta la sua vita quasi che fosse un’enorme partitura di Bach attraverso la quale passa la gioia, il dolore, la perdita, la formazione. La compagnia delle illusioni è la storia di un uomo che non riesce più a capire, banalmente, il limite tra la realtà e la finzione, e scopre, soprattutto a furia di continuare a fingere, che a un certo punto la realtà ti cade addosso. Siccome viviamo in una società dove la finzione è ormai diventata una roba iper-pervasiva, travestita addirittura da informazione, da falsa informazione, da contro falsa informazione, al punto che non si capisce più niente; allora Mollusco, il protagonista, comprende che, forse, a furia di essere così confuso, sta perdendo quell’ultimo briciolo di umanità che gli era rimasta.
Puoi anticiparci qualcosa del terzo romanzo Alfredino laggiù, e perché hai scelto come spunto un fatto di cronaca come quello della tragedia del bambino caduto in un pozzo?
Inizia dal momento in cui Andrea, il protagonista, “sogna” proprio fisicamente di scendere giù a salvare Alfredino. Lì, in realtà, si troverà davanti a una vita più brillante di quella che vive tutti i giorni. Quando l’ha persa quella vita così splendente? Perché gli è successo? Ho scelto quel fatto di cronaca in cui la televisione per due giorni ha fatto la diretta tenendo incollati milioni di persone, perché credo che abbia rappresentato un cambiamento di paradigma fondamentale per il nostro Paese riguardo l’informazione. Si è capito che curiosare, sbirciare, mostrare senza pudore il dolore di qualcun altro faceva audience. A partire da lì, e lo dicono tante analisti, siamo cambiati un po’ tutti. Mettendo in piazza le tragedie altrui, si è spinto fino in fondo questo voyeurismo senza partecipazione. Basta poi guardare come si è evoluta la televisione in questi anni fino a inventarsi dei dolori da portare in scena nel modo più tragico, senza mediazioni possibili, senza pudore, pur di fare pubblico, per farne spettacolo. E quindi tante visualizzazioni, che poi ti portano tanti soldi.
Per un attore e uno scrittore cosa comporta mettersi nei panni di altri? Soprattutto vestire i panni di un personaggio distante da te, che non corrisponde al tuo modo di essere?
Come attore questo ti costringe ad essere una persona di ampissime vedute altrimenti non farai altro che portare in scena il giudizio che tu hai di quel personaggio. E quindi ritorniamo un po’ al principio iniziale, che è racchiuso nella frase finale di Isidoro, e per me fondamentale: «Ogni essere può essere, ogni forma di vita è possibile e non aspetta il tuo giudizio». Traduzione di un detto napoletano.
Già dai tempi della storica compagnia Teatri Uniti, hai sempre lavorato in team, prediligendo il gioco di squadra. Anche nelle fiction emerge una grande coralità. Cosa comporta lavorare in questo modo?
Penso abbia molto a che fare con il mio carattere. Credo di aver capito nel corso del tempo di non avere una componente di ego particolarmente sviluppata. Questo mi porta a non essere competitivo, ma a credere molto nella genialità e nell’irripetibilità di ciascuno. Per me lavorare in gruppo significa dare molta forza e risalto a questo aspetto, al singolo carattere di ognuno. Se questo funziona, si può assistere a degli spettacoli estremamente belli dove ci sono molti colori diversi, dove non c’è un protagonista e 13 sue copie che si preoccupano di far uscire bene solo lui, ma vedi dei mondi che si dispiegano davanti a te, com’è la realtà dove anche l’ultimo degli ignavi è interessante in quanto tale. In Il commissario Ricciardi per esempio il regista Alessandro D’Alatri è stato molto bravo a creare proprio la specificità di ognuno, metterla in comunicazione con gli altri e far esplodere la bravura del gruppo.
Come vivi il successo e la notorietà?
Intanto devi considerare che vivo in Spagna, e quindi non incontro continuamente gente che mi conosce. Poi, questo aspetto della popolarità non mi ha mai particolarmente affascinato per il semplice motivo che dicevi tu prima, e cioè che mi piace più osservare gli altri. Se gli altri invece ti riconoscono, non è più così naturale la relazione perché ti regalano una parte di sé mediata dalla fiction, e non si comportano più come se tu fossi un illustre sconosciuto.