Enrico Caruso, stella della belle èpoque
A 150 anni dalla morte di Enrico Caruso (1873-2023) è giusto dar spazio al suo ricordo – sui media e nel mondo della musica, dell’arte e della cultura in tutto il globo – per diverse ragioni. Una riguarda direttamente noi italiani, ed è molto attuale, e cioè il fatto che dalla fine del XIX secolo l’Italia ha avuto e continua ad avere nel più grande tenore lirico di tutti i tempi un’espressione eccelsa e imbattibile di quello che pure in questo caso si può chiamare made in Italy.
Caruso, volente o nolente (tra poco si capirà perché dico questo), è da quasi un secolo e mezzo uno dei più noti e prestigiosi ambasciatori di musica, bel canto, arte e cultura italiana in tutto il mondo.
Il che per certi versi è anche un po’ un paradosso, visto che dopo i (veri o leggendari?) fischi tributatigli dal pubblico del San Carlo o di altri teatri italiani, e a causa di certe critiche insultanti secondo cui la sua voce sarebbe stata più da baritono che da tenore, dettate più che altro da invidia e gelosia che crescevano con il suo successo; per tutto questo e altro ancora, dico, tipo forse il fisco, il fuoriclasse partenopeo si esibì malvolentieri e sempre di meno sui nostri palcoscenici e preferì le tournées internazionali.
Specie negli Usa, che in pratica diventarono la sua seconda patria e dove egli fu un vero oggetto di culto, non solo per i melomani e gli italoamericani. I newyorchesi in particolare stravedevano per lui.
Un altro motivo per ricordare il suo talento e la sua arte canora è che Caruso è stato un riconosciuto innovatore dell’Opera e in particolare della vocalità dei cantanti lirici. A fine ’800 tardavano ancora a sparire certe leziosità condite di gorgheggi e narcisismi propri della cultura musicale tardoromantica e non più in sintonia col nuovo secolo che nasceva nel segno del realismo e dell’essenzialità.
Era ormai l’età della fotografia e del cinema già trionfante. Caruso portò queste istanze “riduttive” nel canto lirico, con la sua voce potente ma asciutta, piena di slancio e passione e al contempo frenata e calibrata.
Una misura che gli permise di rendere in pieno il dramma verista, come quello di Canio in Pagliacci di Leoncavallo, e però anche di rivisitare con un gusto nuovo personaggi più tradizionali come quelli di Aida e Rigoletto di Verdi o del Faust di Gounod.
Caruso è stato l’interprete che serviva in quel momento all’opera lirica, ereditando ma anche rinnovando la grande tradizione del melodramma italiano. Ha saputo essere grandissimo e insieme nuovo, forgiando il teatro e il canto lirico come lo apprezziamo dai suoi tempi a oggi.
Infine vale la pena di sottolineare un’altra ragione che fonda l’importanza e l’attualità di Caruso, e quindi l’opportunità di “celebrarlo” adeguatamente. Il tenore napoletano è stato il primo cantante lirico in assoluto che abbia capito l’importanza dell’incisione discografica e quindi della diffusione dei dischi per far gustare letteralmente a tutti la musica e il canto. Il suo in primo luogo!
Così è stato lui il primo a registrare la sua voce e a incidere le sue performances, arrivando a vendere un milione e più di dischi in tutti i Paesi. Qualcuno dice che è stato la prima pop star della storia dello spettacolo, citando anche il fatto che è uno dei pochi artisti italiani ad avere l’onore di una stella nella famosa Hollywood Walk of Fame, la via di Los Angeles, davanti al palazzo-teatro che ospita la cerimonia degli Oscar, dove sono incastonate più di 2000 stelle a 5 punte con i nomi di celebrità internazionali che hanno contribuito recitando, cantando, suonando ecc. allo splendore dello star system e dell’industria dello spettacolo.
E nel caso di Caruso le stelle non sono solo dipinte o metaforiche ma in certo qual modo reali. Infatti il suo nome è stato dato addirittura a un asteroide e a un cratere del pianeta Mercurio. E questo non nella belle époque ma nel 2003 e nel 2013! I due ultimi onori (la stella sulla Walk ce l’ha pure Pavarotti) avrebbero potuto renderli benissimo a Lucianone, morto nel 2002 e tenore-divo né più né meno di Caruso, due veri dioscuri in tal senso della lirica italiana e mondiale nel ‘900. Se per lo spazio cosmico è stato scelto il nome del napoletano, un motivo ci dev’essere.
Ma è scontato che non erano state sempre rose e fiori. I Caruso erano poveri e a 10 anni Enrico era andato a lavorare col padre in fonderia. Fu la madre a farlo studiare alle serali, dove da spirito d’artista si scoprì bravo nel disegno e sognò di diventare geometra o architetto. Ma intanto cantava, in chiesa e altrove, e sempre più gente lo ammirava. Finché il famoso baritono Saverio Mercadante lo sentì cantare a un funerale a Sant’Anna alle Paludi, riconobbe il suo talento, lo presentò ad altre celebrità della lirica e gli diede lui stesso lezioni di canto. Che il giovane seguì con diligenza e passione. Poi continuò instancabilmente a studiare e a esercitarsi per conto suo con una crescente ambizione, determinazione e voglia di arrivare a tutti i costi. Fu così la svolta.
Da allora contratti ed esibizioni, opere e concerti, successi strepitosi e qualche fiasco (ma come detto l’invidia vi ebbe la sua parte) in quasi tutti i teatri lirici italiani e poi nel mondo intero. Parliamo di almeno 64 opere dove cantò, dal 1895 al 1919. Nel ’20, prima di morire, stata provando Otello. Non gli riuscì di portarlo in scena, ma ne registrò due stupende selezioni. Antesignano dei dischi, fino alla fine.
Per averlo provato in corpore vili Caruso aveva sentenziato: «Chi non ha sofferto, non può cantare!».
E dolori, ma anche gioie, gli vennero dai due grandi amori della sua vita. La lunga relazione col soprano Ada Botti Giachetti – che prima di tradirlo e lasciarlo (preferendogli l’autista!) gli aveva dato due figli, Rodolfo e Enrico junior – e nel ’19 il matrimonio americano e borghese con Dorothy Benjamin, 20 anni meno di lui, da cui ebbe la figlia Gloria. Era la pace dei sensi e degli affetti, ma durò poco.
Morì il 2 agosto 1921 a Napoli, dov’era in convalescenza per le complicazioni di una brutta pleurite e dopo un grave infortunio subito in un teatro americano. I giorni precedenti aveva cercato di riprendersi al Grand Hotel Excelsior Victoria di Sorrento, nella stessa stanza dove Lucio Dalla 65 anni dopo avrebbe composto la sua Caruso.
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