Enigma Niger
Le ultime notizie da Niamey, la capitale del Niger, non sono univoche, anche se ormai appare certo che i reparti hanno occupato il palazzo presidenziale il 26 luglio scorso, mettendo agli arresti domiciliari il presidente Mohamed Bazoum, l’uomo di Parigi, salito al potere nel 2021, succedendo a Mamadou Ioussufro, che era salito de facto al potere con un altro mezzo colpo di Stato, appoggiato dalla Francia contro il predecessore che aveva voluto stringere accordi con Pechino.
Ovviamente l’Eliseo non poteva restare con le mani in mano, ed ha attivato tutte le possibili vie diplomatiche – guidate dall’amico presidente ciadiano Mahamat Déby – perché gli altri Paesi africani e la comunità internazionale filoccidentale ma non solo, sconfessassero il colpo di Stato e permettessero il ristabilimento della «legittimità costituzionale». Lo stesso Putin sembra aver negato il suo appoggio alle manovre della Brigata Wagner, ma chissà se è vero.
Come prima reazione, una folla nemmeno troppo numerosa di partigiani del golpe ha attaccato l’ambasciata di Francia, arrivando a divellere e distruggere la targa istituzionale esposta all’ingresso della rappresentanza diplomatica. Ma nulla più. Poi sono stati arrestati due ministri accusati di corruzione, così come 180 esponenti del partito del governo, egualmente accusati di interessi privati in atti di ufficio.
Tre sono le ragioni, ci sembra, che in questo momento rendono il Niger un’importante centro di interesse per l’Occidente, così come per la Russia, oltre che per la Cina: primo, dal Niger passa la massima parte del flusso migratorio che, dell’Africa subsahariana, arriva poi da noi in Europa attraverso Paesi come l’Algeria, la Tunisia e soprattutto la Libia, usando i barconi o i barchini che approdano poi a Lampedusa, a Pozzallo, in Calabria e Sicilia; ma anche in Spagna in Francia, seppur in misura molto minore. Secondo, il Niger è la nazione che, finora, in un modo o nell’altro ha limitato l’ingerenza nel Sahel di una strana mescolanza di milizie, dall’Isis (espulso da Iraq e Siria) alla Wagner, oltre ad altri gruppuscoli pretesi jihadisti. Dal Mali al Burkina Faso, e a certe propaggini dello stesso Niger, la presenza francese e occidentale nel Sahel – ci siamo anche noi accanto ai contingenti di mezza Nato, capeggiati ovviamente da francesi e statunitensi – si va riducendo, a favore dei russi e dei cinesi, che al solito non combattono però le loro guerre militarmente ma solo commercialmente. Terzo, lo si sarà già capito, è la questione delle ex colonie francesi, gran parte nel Sahel e nell’Africa occidentale hanno conosciuto la dominazione coloniale di Parigi, che sembra conoscere, più di altre come quella inglese, tedesca o portoghese, una reazione post coloniale più difficile, più virulenta. Persino il pacifico Senegal in questi ultimi giorni sembra essere attraversato da incidenti di una certa gravità.
La prima questione ovviamente è quella che ci riguarda più da vicino: il Niger, soprattutto nella città di Agadez, è da 15 anni ormai, o giù di lì, la via di transito per i candidati migranti verso l’Europa, che da qui scelgono poi quale pista nel deserto usare: l’algerina, la libica o la tunisina. Ovviamente, nonostante gli sforzi del governo nigerino e dei contingenti occidentali presenti sul posto, la città di Agadez è un centro di malaffare per quella perversa categoria di trafficanti di carne umana (contro cui mai si potranno usare epiteti sufficienti di condanna), ma i migranti per tanti nigerini, e non solo, sono una fonte insostituibile di guadagno. A questo proposito, la logica del governo Meloni è quella di dire: se non riusciamo a risolvere il problema alla base, facciamo accordi con i terminali di questi flussi migratori. Ma, evidentemente, ciò non risolve il problema: quando si usa lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, evidentemente non si dovrebbe parlare di Tunisi o Algeri, ma di Gambia, Liberia, Guinea Bissau, della Costa d’Avorio eccetera eccetera.
Seconda questione, il Sahel è diventato la regione africana in cui si concentrano gli sguardi di un certo numero di milizie mercenarie che in questo modo pensano di poter accedere non solo alle risorse minerarie della regione, non solo ai centri di potere locali, non solo alle centrali dell’immigrazione clandestine, ma anche ai benefici economici che potrebbero venire dalla eventuale salita al potere di governi e partiti appoggiati dalla coppia Russia – Cina.
La terza questione è quindi evidente. La Francia ha sì rinunciato negli anni se al controllo diretto delle colonie, accettando il movimento di indipendenza che ha attraversato tutta l’Africa, ma non ha rinunciato a un colonialismo che potrebbe essere definito sostanzialmente economico, che però ha riflessi evidenti in campo politico: il Niger è il simbolo di questo processo, perché la Francia continua a controllare l’economia e le risorse nigerine, a cominciare dalle miniere di uranio di cui Niamey e sesto o settimo produttore mondiale. Ancora oggi una quota cospicua, in ogni caso superiore al 60 per cento, del ricavato delle miniere di uranio nigerine, non resta nel Paese africano, ma prende la via delle aziende francesi, o affiliate. L’odio che si respira a Niamey contro Parigi, così come a Bamako e a Ouagadougou, perché è molto più virulento di quello contro Londra o Lisbona? Il discorso porterebbe portarci molto lontano, ma certo credo che ciò cominci a preoccupare Parigi, perché prima ha perso il Mali, poi ha quasi perso il Burkina Faso, ed ora perfino Niamey e Dakar manifestano una certa insofferenza nei confronti dello storico alleato. Ancora: “aiutiamoli a casa loro” vuol dire lasciare realmente le ricchezze del sottosuolo e del suolo africano ai Paesi che li possiedono, dimostrando così che l’Africa non è un continente povero ma impoverito.
L’Africa avrebbe bisogno di vero rispetto: negli anni scorsi, a dire il vero, sia Hollande che Macron, soprattutto quest’ultimo, hanno pronunciato discorsi incoraggianti a Ouagadougou e a Niamey sulla necessità di mutare i rapporti tra la Francia e i Paesi ex coloniali. Forse la politica alla fine è più avanzata del business, che non vuole rinunciare agli enormi benefici che vengono ancor oggi dallo sfruttamento post coloniale.