Empire State

Apre oggi a Roma al Palazzo delle Esposizioni una rassegna imperdibile di arte contemporanea
Michele Abeles

Che la Grande Mela sia ancora l’occhio del mondo attuale sull’arte lo dimostra, per chi non ci credesse, la rassegna sui 25 artisti americani esposta fino al 21 luglio (catalogo Skira).

È un mostra bellissima. In primo luogo perché le vaste sale del Palazzo delle Esposizioni sono adatte nella loro luminosità ad accogliere e a far dialogare il visitatore con ciascuno degli artisti. Si dirà che questa è una cosa normale, ma in questo caso è non solo consigliabile, ma necessaria, pena la perdita di un rapporto con creazioni “totalizzanti”. Ciascuna di esse, infatti, è un mondo, un modo-di-essere-uomini d’oggi, una interpretazione di New York, città cosmopolita e in un certo senso “cosmica”, nel senso pregnante di quest’aggettivo. E New York lo è, se non altro perché il titolo della mostra recita “Empire”, in onore dell’enorme grattacielo un tempo il più alto del mondo, ma sempre oggetto mitico e feticcio, si direbbe, della modernità.

La quale oggi non solo guarda all’alto ma piuttosto in basso, intorno e indietro. Come documentano le opere di ciascuno di questi artisti che usano le tecniche più varie e sofisticate per dire “New York” ma soprattutto per  dire il mondo, oggi.

L’insieme è di una straordinaria varietà, più che di complessità. Anche quando le opere si “fanno” per accumulo di sensazioni, emozioni, riferimenti e pulsioni, il pensiero non risulta frammentario, ma tende all’unità, a dire cioè un mondo unico e solo attraverso ogni singola opera.

Julian Schnabel, ad esempio, regista e pittore, sognatore e realistico. Stampe antiche, riferimenti sacri e profani attraversati da stilettate di pennello, da batuffoli di bianco, danno l’immagine di un artista che ricrea il passato come vedendo da una finestra interiore.

Antoine Catala rivisita il mito della farfalla orientale e ne fa un simbolo gioioso, volante, trasmesso in uno schermo aperto sul cielo rannuvolato e luminoso: un gioco di un bambino poeta dei simboli, che torna mentalmente all’Oriente per ricreare un mondo di leggerezza.

Michele Abeles è un fotografo fantasioso. Assembla brani di corpi, oggetti, macchie: visioni fratturate, sovrapposte ma non confuse, bensì disposte come un mosaico moderno di forme di vita. Collage? Non proprio, piuttosto brani vissuti, scene di incontri, momenti di riflessione dove colori come il rosa e un celeste chiaroscurato sono bellissimi canti.

Jeff Koons rivista la grecità. La sua Venere in acciaio inossidabile, blu e nera, è flessuosa come una statua antica, ma colorata di riflessi metallici che la rendono di un bellezza lunare, surreale, quasi metafisica.

All’opposto, Bjarne Melgaard crea sedie e sgabelli con figure femminili capovolte e dipinte a colori forti, forme turgide, un erotismo meticciato e scuro che è il sottobosco esistenziale della Grande Mela. Così come Danny McDonald esplora l’inconscio orrorifico di mostri e di magie nere, esplorando una New York satanica, terribile e superstiziosa.

Questi solo alcuni esempi. Ma percorrendo con calma la rassegna le scoperte si rinnovano e i mondi da esplorare si trovano ad ogni passo. New York è l’oggi, nell’alto e nel basso, nel passato, nel presente e nel futuro. Il bello e il brutto, distinti ed insieme. Ma non è un puzzle disarmonico. È la vita. Piacevole o meno, ma sempre vita. Ricrearla è il compito dell’arte.

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