Empatia: limite o opportunità?
A volte mi vengono fatte delle domande sull’empatia per comprendere alcune dinamiche relazionali oppure mi viene detto «sono troppo empatica, sento gli altri e mi sento male» o anche «io sento troppo, dovrei sentire di meno e pensare più a me stesso» come se l’empatia fosse dannosa.
Se dovessi parlare dell’empatia con una metafora immagino un filo invisibile che mi collega a chi mi passa accanto, immagino i colori del vissuto degli altri, sento un calore umano.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, non sarò sicuramente esaustiva rispetto ad un concetto così ampio e studiato sotto molti punti di vista da psicologi e neuroscienziati, ma propongo qualche spunto di riflessione sulla base di studi ed esperienza sul campo. È una questione semplice e difficile allo stesso tempo, semplice perché è una facoltà che (più o meno) tutti possediamo in misure diverse, difficile da sintetizzare e come tutti i processi mentali in continua scoperta.
Partendo dalla sua definizione di base per empatia si intende «la capacità di entrare nell’esperienza di un altro e di comprendere oggetti o emozioni al di fuori di noi stessi» (Oxford english dictionary). L’empatia può avvenire in qualsiasi relazione interpersonale, avviene all’interno di un’interazione in cui una persona sperimenta e condivide i sentimenti dell’altra, significa assumere il ruolo dell’altro e vederlo dal suo punto di vista. La psicologa Judith V. Jordan dice che è un’esperienza complessa «una risonanza di sentimenti che produce una comprensione più precisa di sé, dell’altro e della relazione», implica la capacità di tollerare l’ansia, di tollerare lo stato affettivo altrui, di risuonare con lui emotivamente, ottenendo una maggiore comprensione del suo mondo interno. Essere empatici significa essere aperti a quello che la persona sta sperimentando, guardare le cose dal suo punto di vista. Edoardo Giusti e Maura Locatelli in un testo che approfondisce questo tema scrivono che “l’empatia è sentire dentro l’altro” ed è diversa dalla simpatia che è “sentire con l’altro”. L’esattezza empatica (esatta perché naturalmente la deduzione empatica può essere soggetta ad errori di valutazione) è la capacità, di comprendere i sentimenti affettivi e i pensieri dell’altro e rappresenta una dimensione fondamentale dell’intelligenza sociale.
Giusti-Locatelli scrivono: «L’empatia sarebbe dunque frutto di un delicato equilibrio tra il saper riconoscere l’altro da sé, ma anche di sapere accogliere l’altro dentro di sé». Questa abilità (di assumere la prospettiva altrui) si costruisce sulla nostra tendenza a decodificare le informazioni dalle espressioni facciali, dai movimenti del corpo, dal tono della voce e dal contatto oculare. Alcuni studi hanno trovato una correlazione positiva tra empatia e comportamento prosociale (quel comportamento che riflette il prendersi cura e il preoccuparsi dell’altro). Altri studi hanno trovato una relazione tra empatia e regolazione dell’aggressività, per cui un comportamento aggressivo implica situazioni di dolore e disagio. L’osservazione della sofferenza potrebbe far sorgere disagio da parte dell’osservatore empatico anche quando è lui stesso “aggressore”. In questo modo l’empatia potrebbe inibire le risposte aggressive. Inoltre, alcuni studi sui bambini che subiscono dei traumi hanno osservato come l’empatia può avere anche una funzione protettiva nei confronti dello stress, in questa ricerca i bambini con maggiore empatia riuscivamo ad avere minore difficoltà di adattamento all’ambiente scolastico. La capacità empatica facilità la comunicazione e l’adattamento. Inoltre, rappresenta anche uno strumento fondamentale nella relazione terapeutica. Carl Rogers padre della Psicologia Umanistica e della terapia centrata sul cliente definisce l’empatia come «il percepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona – ma senza mai perdere di vista questa condizione di “come se”…». Parlare di empatia per me è come parlare di umanità, mi fa immaginare quello che vivono le persone che incontro, dal paziente all’amica con cui gioco a pallavolo, dallo sconosciuto in metro al mio vicino di casa. È uno strumento vitale per le relazioni, per entrare in contatto con gli altri, per comprenderli, per stargli vicino. Quando questa particolare sensibilità viene compromessa (come nelle esperienze di cui sopra) sono forse altri aspetti su cui bisogna lavorare, come la gestione dell’ansia, il sapere chi siamo, avere una piena consapevolezza di sé ci permette di non “perderci” nel vissuto dell’altro. Utilizzare adeguatamente questa capacità, vuol dire avere uno strumento relazionale preziosissimo da usare quando vogliamo e dove vogliamo.