Emigrata nell’Oltrecortina

Articolo

Il 10 dicembre scorso, la notizia della morte di Lucia De Gaspari lo ha raggiunto a Singapore, e subito Klaus Bittner si è messo in volo verso Lipsia. Non l’ha dimenticata in tutti questi anni, sebbene le vicende della vita l’abbiano portato lontano. L’aveva conosciuta per caso, a metà degli anni Ottanta, quando ancora viveva nell’ex Ddr. Per lui, cresciuto nell’ateismo, l’esistenza di un essere supremo era nulla più che un’ipotesi matematica. Le conversazioni con quella giovane donna italiana dallo sguardo limpido e dalla logica disarmante gli insinuarono per la prima volta il dubbio che Dio ci fosse . Prova ad amare – gli aveva detto – e vedrai che capirai. A Zvochau, dove si svolgono i funerali, ritrova tanti amici, persi di vista nei grossi rivolgimenti che hanno interessato la Germania in questi ultimi anni. Ciascuno può dire, a ragione, di avere avuto un rapporto personale con lei. Responsabile dei Focolari dalla fine degli anni Settanta di questa porzione d’Europa, quando ancora faceva parte integrante del blocco sovietico, Lucia ne ha condiviso sino in fondo le vicissitudini, mossa solo dal desiderio di testimoniare. È stata per lunghi anni tramite tra Est e Ovest, in un dialogo a tutto campo con cattolici ed evangelici, con persone nel dubbio o lontane dalla fede. È stata tra i primi che, che, agli inizi degli anni Sessanta, si trasferirono Oltrecortina, come si diceva allora, per portarvi l’ideale dell’unità. Giuseppe Santanché, Enzo Maria Fondi e Roberto Saltini, Natalia Dallapiccola e lei, che allora aveva poco più di vent’anni. Nel libro Un popolo nato dal Vangelo (1) troviamo su questi avvenimenti testimonianze di prima mano. Da allora, Lucia è rimasta lì. Dapprima a Berlino Ovest, da dove è possibile seguire con le dovute precauzioni la vita e l’espansione delle comunità del movimento che man mano si vanno sviluppando nella Ddr. Chi l’ha conosciuta in quegli anni ancora la ricorda quando lavorava come guardarobiera in un ospedale di Berlino, adattandosi, da emigrata, a fare un lavoro molto modesto. Dapprima sospettoso, si domandava cosa ci facesse quella ragazza straniera in un posto da dove in parecchi avrebbero voluto scappare. Ma quel suo atteggiamento sempre cortese, quel suo modo di trattare la biancheria dell’ospedale, come se i malati fossero amici o parenti, parlavano un linguaggio chiaro, comprensibile. Ben presto iniziarono a considerarla una di loro, una vera compagna. Non era facile la vita. La limitazione della libertà, e la difficoltà di contatti con il resto del mondo. rischiava di appiattire tutto. Ma il carattere allegro e gioioso di Lucia – spiega parlando di quel periodo Bruna Tomasi, una delle prime compagne di Chiara Lubich -, il suo comportamento riuscivano a creare attorno a lei un clima fraterno, in cui ogni persona si sentiva libera, perché amata e stimata. Il 1984 segna una nuova tappa di questa avventura così straordinaria, anche se condotta nella massima normalità. Una normalità, però, di chi ha messo la sua vita nelle mani di Dio. Le comunità del movimento sono ormai disseminate nei grandi centri della Germania Est: Lipsia, Erfurt, Halle e Goerlitz, oltre che a Berlino Est. Lucia vede la necessità di trasferirsi a Lipsia, e con un grande atto di fiducia presenta una regolare domanda alle autorità comuniste. Passano alcuni mesi di sospensione e di attesa, allorché finalmente viene convocata dalla polizia, che la sottopone a lunghi e minuziosi interrogatori. Finalmente ottiene il permesso di attraversare la frontiera, ma prima deve ancora sottoporsi per quattro settimane ad un trattamento speciale. Viene internata in un campo di smistamento, una sorta di lager, dove è l’unica donna in mezzo a tanti uomini di varie nazionalità, che per le più varie ragioni hanno fatto domanda come lei di trasferimento. Gli interrogatori erano quotidiani e si protraevano per più ore – racconterà più tardi -, e ciò che maggiormente temevo erano ovviamente gli amici dell’Est. Non volevo assolutamente metterli in pericolo con delle asserzioni avventate. Anche in quella situazione Lucia cerca di tessere rapporti. I suoi compagni di ventura sono tesi, le liti scoppiano per un nonnulla, e lei mette a disposizione il poco che ha: un caffè, invitando i compagni a fare lavori utili per vincere la noia, o a giocare la sera una partita a carte. Sta di fatto che alcuni di loro, una volta nella Ddr, l’hanno rintracciata per non perdere la sua amicizia. Giunge finalmente a Lipsia. Saranno anni fecondi e preziosi per il consolidamento del movimento, mentre nulla faceva presagire che con la fine degli anni Ottanta stava per aprirsi uno scenario nuovo. Tante volte aveva passato il confine tra i due mondi, portando con sé lettere e doni, ed altrettante volte era tornata carica di lettere e doni, assieme alle notizie della grande famiglia del focolare. Grazie a lei – spiega Monika Hohl, di Lipsia – non ci siamo mai sentiti isolati dal resto del mondo. Si trattava ora di portare avanti un lavoro di ricomposizione ancora più delicato, una volta crollati i muri. E questo Lucia ha continuato a fare. Anche dopo che, dieci anni fa, le era stato diagnosticato un tumore maligno. Con la comunità del movimento si è sentita in prima linea in quest’opera di ricomposizione. Non per caso, per darle l’estremo saluto nel piccolo cimitero di Zwocau, sono intervenuti non solo da ogni parte della Germania e da diverse nazioni dell’Europa dell’Est, dalla Lituania all’Ungheria, ma qualcuno anche dai continenti extraeuropei.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons