Stato di emergenza e riforme istituzionali
La pandemia non è affatto debellata e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha preannunciato l’intenzione di prolungare la dichiarazione dello stato di emergenza previsto dalla legge 225 del 1992 fino a fine 2020 per poter gestire in tempi brevi, con i Dpcm, le scelte necessarie a contenere e prevenire l’eventuale ritorno o sviluppo di nuovi focolai di coronavirus.
La scelta annunciata passerà, stavolta, attraverso il voto delle camere e sembra che la proroga possa avvenire, al momento, solo fino al 31 ottobre. Un periodo cruciale per il nostro Paese, tra accordi da definire sul piano di rilancio a livello europeo e la scadenza elettorale del 20 e 21 settembre che riguarderà alcune amministrazioni regionali e comunali oltre al referendum costituzionale sul taglio al numero dei parlamentari.
Abbiamo chiesto nel merito il parere al politologo Paolo Pombeni, autore di un recente saggio edito da Il Mulino, su “Lo stato e la politica. Quanto contano nel mondo globale di oggi” incentrato sulla necessità di riscoprire i concetti di “stato” e di “politica” «in questo nostro tempo di crisi, sospeso tra un populismo sovranista e le nuove tendenze oligarchiche e tecnocratiche».
L’annunciato prolungamento dello stato di emergenza fino a dicembre potrebbe incidere sulla già ridotta centralità del parlamento lamentata da alcuni osservatori con una prevalenza dell’esecutivo?
Il prolungamento dello stato di emergenza fino a dicembre richiede una normativa che regoli questa modalità, sottraendola alle manie di protagonista del premier e dei suoi ministri (ricordandosi anche che poi questi possono cambiare e che non sappiamo bene a chi sarebbero consegnati questi poteri speciali). Disporre per emergenze particolari come una pandemia di strumenti di intervento rapido che non debbano poter finire intrappolati in lotte politiche strumentali è una esigenza ragionevole. Considerare che questi strumenti possano essere i DPCM come attualmente sono, cioè atti amministrativi sottratti a qualsiasi valutazione, sia a quella previa del Quirinale, sia a quella postuma del parlamento come accade per i decreti legge è invece altamente discutibile. Un sistema politico serio dovrebbe studiare rapidamente un quadro legislativo coi suoi pesi e contrappesi in cui iscrivere gli atti di emergenza, a partire dallo stabilire chi ha il potere di attivare davvero lo stato di emergenza (gli abusi di questo potere sono purtroppo noti agli storici). Per poter acquistare rapidamente mascherine o banchi di scuola non dovrebbe essere necessario nessun DPCM, basterebbe predisporre strumenti di intervento ordinari, mentre altro caso è, per esempio, l’intervento sui focolai epidemici. Aggiungerei che se un Paese è davvero consapevole di essere in una condizione di emergenza dovrebbe attrezzarsi per essere governato da ampie coalizioni nazionali che superino i giochetti di schieramento della politica politicante. Purtroppo questo sentimento da noi è lontano sia dal governo e dalla coalizione che lo sostiene sia dalle opposizioni.
Se non interverranno novità, si andrà al voto il 20 e 21 settembre anche per il referendum sul taglio dei parlamentari. Una competizione che sembra già decisa in partenza e sulla quale, al di là della pandemia, non esiste grande attenzione. Quale è il suo parere in merito? Come potrà incidere sul nostro sistema politico l’applicazione della riduzione prevista?
L’approvazione della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari è stata una resa vergognosa al populismo grillino, sia da parte delle destre che da parte in ultimo del PD. Il numero dei parlamentari è ovviamente un dato che viene calcolato in maniera arbitraria (non c’è nessun “numero perfetto”), ma lo si deve fare sulla base di un calcolo razionale che tenga conto del problema di garantire una equa distribuzione della rappresentanza dei territori, non tagliando numeri a casaccio sulla base della demagogia secondo cui i costi per i parlamentari sono soldi buttati. Si tratta di una decisione imposta ad una opinione pubblica del tutto distratta sul tema: come è evidente la gente non trova interessante il tema. Come andrà a finire è meno certo di quel che sembra. Siccome non c’è quorum è probabile che coloro che andranno a votare (il numero sarà gonfiato dalla concomitanza con una serie di elezioni regionali e amministrative) si facciano trascinare in gran parte dal clima antipolitico contro il parlamento, ma non è detto che, per la scarsa informazione che circola, ci siano anche di quelli che invece voteranno “no” per abitudine ormai a respingere qualsiasi riforma costituzionale. Dunque anche se è difficile, non è escluso che ci siano sorprese.
La riduzione prevista altera non poco la distribuzione della rappresentanza e di conseguenza anche la presa territoriale delle varie forze politiche, però come lo si vedrà solo quando avremo la revisione dei collegi. Quella è una partita delicatissima in cui tutti i partiti cercheranno di imbrogliare le carte. Impossibile capire come andrà a finire in un clima di confusione e di lotta di tutti contro tutti come è quello attuale
Riuscirà questo parlamento a varare la riforma elettorale prevista del Brescellum o Germanicum? Le sembra una soluzione ragionevole e tale da non dover subire ulteriori cambiamenti con il cambio delle maggioranze?
Come si muove l’attuale parlamento è arduo da decifrare. La bozza in discussione favorisce un sistema fortemente proporzionale, mentre montano di nuovo le richieste di avere un maggioritario che favorisca le coalizioni. A mio modesto giudizio purtroppo oggi una competizione fra due coalizioni è praticamente impossibile. Solo il centrodestra ha una qualche forma di coesione, peraltro incerta per la posizione di Forza Italia che si distingue da Lega e FdI. Il cosiddetto centro sinistra è una armata Brancaleone che mette insieme il Pd, i Cinque Stelle e un po’ di cespuglietti senza che ci sia un’idea comune che li tiene insieme. Come si è già visto con le coalizioni guidate da Prodi questi collanti forzosi non tengono. Se però vi fosse un sistema elettorale maggioritario avremmo come ricaduta che ogni volta che una coalizione si dissolve in parlamento bisogna sciogliere la legislatura e tornare a votare. Non è un modo di procedere augurabile per un Paese come il nostro che ha bisogno di ricostruire un “tessuto nazionale” pur nella dialettica di posizioni e non di inabissarsi sulle dinamiche di contrapposizione fra Montecchi e Capuleti.