Emergenza nel pollaio
I bambini sono bambini. E quando ci si mettono con le loro monellerie... Anche in tempi di guerra.
Niente più di un pollaio riesce a raccontare il caldo e la pigrizia di un pomeriggio d’estate.
Per un bambino di città non è facile incontrare questa comunità di pennuti, ma quell’anno i bombardamenti su Milano si erano fatti troppo frequenti e devastanti e anche noi, come tanti, eravamo “sfollati”.
Avevamo trovato alloggio in campagna ed è qui che feci la conoscenza di un pollaio nel caldo e nella pigrizia di un pomeriggio d’estate.
Quando tutti dormono o si muovono così adagio che neanche li senti, le galline, accoccolate nella polvere, danno l’unico segno di vita con quel loro verso strascicato e roco che potrebbe essere un borbottio, uno sbadiglio, un lamento o forse uno di quei discorsi che si fanno quando si è mezzo addormentati, ma ancora si cerca di dire qualcosa a chi ti dorme lì vicino e che non ti risponde perché si è addormentato prima di te.
«Cooooooo coooo cooo coo co co…». Come la pallina da ping pong quando cade e fa rimbalzi sempre più corti. Poi si ferma.
Inutile opporsi, anche oggi ti hanno mandato a fare il pisolino, ma non riesci a dormire, te ne stai soltanto zitto zitto perché se no le prendi; ma non dormi.
Le tortore tacciono, saranno da qualche parte all’ombra. Le rondini escono soltanto a sera (dove staranno di giorno?). Il gatto senz’altro è in giro, ma mica fa rumore, lui. Il cane Bill dorme beatamente come del resto in tutte le altre ore del giorno, se i nostri giochi, non lo svegliano e non lo interessano.
Le tende alla finestra erano ferme, neanche un fil di vento quel giorno. Perfino il moscone, che prima si era messo a ronzare freneticamente per la stanza, ora era sparito. Forse aveva trovato la strada per tornare al suo adorato letamaio, oppure, dopo l’ultima capocciata nel vetro della finestra semichiusa, era svenuto. Che stupido!
Anche le galline però, quanto a stupidaggine non scherzano. Basta vedere come ti guardano, con quell’occhio fisso, inespressivo, allucinato; come se non avessero mai visto qualcuno più brutto di te. Saranno belle loro! Con quell’andatura goffa da signore troppo grasse. E non parliamo poi dei galletti, che sono tali e quali le galline quanto a stupidità e occhio allucinato, e in più si danno un sacco di arie come fossero bersaglieri; ma dei bersaglieri hanno solo le penne.
Ecco: era uno di questi pomeriggi. Io e la mia sorellina (un po’ più grande e sempre piena di idee) eravamo sfuggiti con un rocambolesco sotterfugio all’obbligo del riposino e nel grande silenzio ce ne stavamo zitti zitti tra i rami del fico. Sulle galline avevamo una totale identità di vedute e così venne a tutti e due una voglia matta di fare qualche scherzaccio a quella congrega di grasse signore. Ma le galline, al minimo sospetto di pericolo, si mettono a schiamazzare indegnamente, e questo ci avrebbe tradito:
«Perché non eravamo a letto?!», eccetera, eccetera: meglio evitare.
Ma allora che fare?
«Perché non le mandiamo a dormire esattamente come i grandi impongono sempre a noi?», propose la sorella.
Detto fatto. Entrammo nel recinto senza far cigolare il cancelletto sgangherato. Le signore sollevarono la testa con l’occhio più allarmato che mai (ti guardano sempre con un occhio solo ed è sempre allarmato), ma noi cauti e silenziosi, riuscimmo a non spaventarle.
Si trattava adesso di farle entrare nella zona notte, un capanno in muratura con vera porta di vero legno e un tetto di tegole ricoperto da una pianta di zucca dai bei frutti cicciotti e gialli. Aprimmo la porta e iniziammo una manovra di accerchiamento, che, quando si è soltanto in due, esige notevoli qualità strategiche. Un po’ perplesse e sempre sul punto di abbandonarsi al panico, incominciarono a entrare e a prender posto su quei bastoni dove le galline vanno a dormire, tutte in fila, come le rondini sul filo, ma meno eleganti.
Chiusa la porta, le galline accettarono l’idea che fosse ora di dormire. Dopo qualche inutile e rituale battibecco per la scelta del posto in base a presunte supremazie, calò il silenzio. Operazione compiuta, ma… tutto qui?
Ed ecco arrivare trotterellando Bill. Probabilmente ci aveva osservato dal suo angolo; aveva trovato il gioco interessante e stava pensando ad un degno epilogo. Sta di fatto che si avvicinò alla porta del pollaio grattandola con la zampa e voltandosi a guardarci.
«Giusto! Ho capito!», esclamò mia sorella. E prima che io potessi capire cosa aveva capito e cosa era giusto, scostò cautamente la porta quel tanto che bastava a farci passare Bill. Lo sciagurato entrò in punta di zampe e poi, d’un tratto, lanciò un improvviso e terribile latrato degno di un doberman.
Quello che successe là dentro non lo si può immaginare: lo potemmo intuire da un fenomeno curioso e molto comico: dallo sportellino caratteristico di ogni pollaio che si rispetti esplose una nuvola di polvere, piume e penne in turbinose volute barocche; il tutto con l’agghiacciante colonna sonora delle galline che vi si precipitavano a due, tre per volta con il risultato di riuscire a cacciar fuori soltanto le teste terrorizzate. Finalmente, come quando uno salta a piè pari sul tubetto del dentifricio, schizzarono fuori urlando inseguite dai latrati di Bill.
Ormai eravamo stati traditi da questa immonda gazzarra: tutto il vicinato accorse seppellendoci di minacce e improperi in difesa delle galline… e delle uova, perché alla base della repressione c’è sempre la logica del profitto.