Emergenza Ecuador nel racconto di una volontaria italiana

Sono passati appena dieci giorni dal forte terremoto e mentre nel Paese si continua a scavare il bilancio delle vittime sale tragicamente e si aggiorna di ora in ora: oltre 700 i morti, circa 16 mila i feriti e centinaia di persone sono ancora disperse. Sulla costa mancano cibo, medicinali e acqua potabile. Cresce il rischio di epidemie
terremoto in Ecuador

Quito. È un tranquillo sabato pomeriggio, il solito acquazzone pomeridiano colpisce la città capitale del Paese. Gli abitanti si affrettano a tornare verso casa o cercano un momentaneo riparo nei locali; poi, improvvisamente, la terra inizia a tremare, a circa 170 chilometri da Quito, sulla costa settentrionale, una delle aree più turistiche del Paese: un potente sisma sta distruggendo ogni cosa.

 

A Quito le porte iniziano a sbattere, i vetri delle finestre si rompono, i lampadari oscillano pericolosamente, la gente inizia a riversarsi in strada, si sentono grida di paura e pianti. «Ho visto un palo della luce ruotare su se stesso, poi, non riuscendo più a sostenere il suo stesso peso, crollare mancando di qualche centimetro una donna che si trovava sul marciapiede», così ricorda quegli attimi di paura Anna, una ragazza di Roma che attualmente lavora a Quito come volontaria Focsiv (Federazione degli organismi cristiani Servizio internazionale volontario), presso l’Unión de Afectados por Chevron-Texaco. Proprio quel 16 aprile, i suoi colleghi erano partiti per passare il fine settimana sulla costa.

 

Nella città vige il panico, le linee telefoniche sono interrotte ed è impossibile contattare chi si trova nelle zone più colpite; è soprattutto grazie ai social network che arrivano le prime tragiche informazioni: alcuni villaggi sono completamente distrutti, i servizi di base interrotti, cresce la paura per quello che sta accadendo e che potrà accadere nelle ore successive. Dal Centro di controllo tsunami del Pacifico viene dato l’allarme per il rischio mareggiate (poi fortunatamente ritirato), ma ad alcuni abitanti sulla costa viene chiesto di abbandonare le proprie case.

 

Passato il primo momento di smarrimento, il Paese si è messo subito in moto per aiutare le zone colpite. A Quito i danni sono contenuti, ma sulla costa mancano cibo, acqua, medicinali e beni di prima necessità. Sono migliaia gli sfollati che non hanno rifugio e i centri di accoglienza non riescono a contenere tutti i bisognosi; le condizioni igieniche peggiorano ma soprattutto c’è bisogno di acqua potabile e di sistemi di depurazione per evitare la diffusione di epidemie. Le squadre di soccorso, provenienti anche dai paesi vicini, continuano a scavare per tirare fuori dalle macerie i corpi ancora intrappolati; inizia la corsa agli aiuti umanitari, sono migliaia i volontari che si sono attivati, ma insieme alla solidarietà nel Paese vige anche il caos.

 

Sui social arrivano informazioni che dirottano gli aiuti dove non ce n'è bisogno, i ragazzi che arrivano sulla costa sono pieni di speranza e di buona volontà, ma anche inesperti, e per questo rimangono coinvolti in violenze e a rischio epidemie, gravando ancora di più sui servizi già scarsi. A Quito, la popolazione si è attivata fin da subito: «Nei vari centri di raccolta – racconta Anna – passiamo ore e ore a preparare casse di viveri, medicinali e coperte che fisicamente carichiamo su degli elicotteri che partono verso le zone colpite, lavoriamo fianco a fianco ai cittadini ecuadoriani, condividiamo con loro la sofferenza per le vittime e il coraggio di voltare pagina».

 

Ma la paura più grande è per quello che accadrà dopo, quando i volontari da migliaia diventeranno poche decine e i riflettori occidentali si spegneranno sull’Ecuador. Il Paese allora dovrà rialzarsi e cavarsela da solo: «Sarà in questo momento che andremo nelle aree più colpite – continua Anna – per impegnarci a supportare la ricrescita di aree, famiglie e attività distrutte; faremo così la nostra parte come cooperanti per lo sviluppo, aiutando il Paese nella rinascita post-sisma».

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