Elogio della diplomazia, per una pace possibile

La centralità dell’attività diplomatica in un mondo attraversato da molteplici conflitti. Dialogo con Valdo Spini a partire dal libro dell’ambasciatore Pasquale Ferrara “Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi”
Diplomazia
Diplomazia , Consiglio di sicurezza Onu (AP Photo/John Minchillo)

L’ultimo libro di Pasquale Ferrara, “Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi”, Città Nuova, si presta ad un serio confronto e dibattito sull’attualità della politica internazionale e sull’importanza dell’azione diplomatica in un tempo segnato dal conflitto in Ucraina.

A Firenze ne hanno discusso il 19 giugno in un incontro pubblico promosso dal Centro giovani La Pira, Patrizia Giunti, presidente della Fondazione Giorgio La Pira, e Valdo Spini, attuale presidente della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli. Spini proviene da una lunga esperienza diretta in politica come esponente della cultura socialista e laburista ricoprendo la carica di parlamentare e di ministro. Attivo nella comunità della chiesa valdese, presiede il circolo fiorentino fondato in stretta continuità con l’attività dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, antifascisti di Giustizia e Libertà assassinati in Francia nel 1937.

Partiamo dal libro di Ferrara. Cosa ha attirato, in particolare, la sua attenzione?
Pasquale Ferrara è un importante diplomatico italiano. A Firenze abbiamo avuto modo di conoscerlo quando era segretario dell’Istituto Universitario Europeo. È un diplomatico che si colloca sul versante di un necessario rapporto tra diplomazia ed etica. Non a caso il libro fa, in questo senso, l’esempio dell’ambasciatore Attanasio, ucciso in Congo mentre svolgeva un’intensa attività di solidarietà e di soccorso. Ferrara si pone contro la scuola diplomatica cosiddetta realista («il preteso realismo ci ha però portato spesso in vicoli ciechi») ed invece opera per una diplomazia aperta alla società civile. Per lui la diplomazia deve essere “preventiva “piuttosto che “reattiva”.

Un lavoro che chiede adeguate risorse…
E infatti nel libro lamenta le condizioni del bilancio italiano degli Esteri attestato allo 0,11% del Pil contro lo 0,20% della Germania. La Francia ha lo 0,12% ma su un Pil superiore a quello italiano. Lo stesso vale per il numero dei diplomatici in servizio. Io stesso ricordo di avere posto a suo tempo questo problema.

Ferrara afferma che non è fondato il motto latino “Se vuoi la pace prepara la guerra”…
È evidente che la diplomazia come la intende Ferrara ha come obiettivo la pace. Il filo della pace, o, come dice il titolo, la ricerca di un paese innocente si dipana in vare analisi, frutto, delle molteplici esperienze dell’autore. Mi sono sembrate particolarmente centrate quelle sull’Africa e sull’ importanza dei positivi sviluppi del Trattato di Libero commercio continentale africano (AFCFTA). Come spiega molto bene l’ambasciatore, «nella convulsa destrutturazione di una globalizzazione che è stata giustamente chiamata in causa per le sue asimmetrie e le sue incongruenze, l’Africa costituisce, nel bene e nel male, un laboratorio di questa intersezione tra politica e vita».

Nel testo si aprono diversi scenari mondiali…
Da parte mia segnalo, in particolare, il capitolo «Sfida nell’Indo –Pacifico», un quadrante che pullula di nuove iniziative e dove esiste un grande fermento, spesso tuttavia caratterizzato da un’esasperata competizione. Ferrara analizza tutte queste iniziative per concludere, citandone una, la novità dell’Apec (Asia- Pacific Economic Cooperation), in cui siedono Usa, Cina e Russia, ma anche entità come Hong Kong e Taiwan. «Una cornice inclusiva di dialogo e di cooperazione» secondo Ferrara anche se, come avvisa, «forse non basta ad allentare la tensione che si va accumulando in quella parte del globo».

È, però, notizia proprio di questi giorni che si punti proprio sulla prossima riunione, a San Francisco in novembre, per un eventuale incontro tra Biden e XI Jinping.

Ma torniamo alla pace. Ferrara si interroga se siamo nell’epoca della neo-pace o della non pace. Pace mondiale, pace locale. E affronta il tema della guerra sferrata dalla Russia contro l’Ucraina. La grande sfida che oggi viene portata alla pace.

Viviamo, in effetti, un cambiamento d’epoca straordinario che alcuni paragonano alla situazione precedente al primo conflitto mondiale e altri mettono in relazione alla necessità della guerra contro le dittature come nello scontro contro il nazifascismo. Qual è la visione della cultura socialista che lei esprime dall’opposizione di Matteotti all’ “inutile strage” fino alla lotta di Liberazione?
I socialisti dal punto vista dei valori sono dei pacifisti convinti. Giacomo Matteotti si oppose alla Prima guerra mondiale, fino al punto di essere mandato in Sicilia in una compagnia di disciplina, cioè in quelle formazioni in cui venivano assegnati anche malfattori di vario genere. Si oppose ad una guerra dichiarata dall’Italia quando sarebbe stato possibile ottenere i territori italiani ancora sotto l’Austria con la trattativa, così come voleva fare Giovanni Giolitti. Ma durante la seconda guerra mondiale i socialisti parteciparono alla Resistenza e alla guerra di Liberazione. Si trattava di battere il nazifascismo e di liberare il territorio della nostra nazione. Non si poteva rimanere a guardare.

Quale è stato il rapporto con la Nato per i socialisti nelle loro varie espressioni?
I socialisti italiani furono contrari alla Nato, in quanto sopravvenuta divisione del mondo in blocchi contrapposti. Via via maturarono però una loro convinta adesione dopo gli esempi della repressione sovietica della rivolta d’Ungheria nel 1956, dell’intervento in Cecoslovacchia del 1968 e così via. Sempre mantenendo però come stella polare del loro agire la ricerca del negoziato. “Negoziare sempre” era il motto di Pietro Nenni. Oggi il ruolo della Nato è stato rivalutato proprio dall’aggressione della Russia all’Ucraina. Precedentemente il presidente francese Macron aveva parlato di “morte cerebrale della Nato”.

Cosa è emerso a suo parere?
È qualcosa che merita un’attenta riflessione. La Russia teneva per la gola delle forniture energetiche una nazione come la Germania e la stessa Italia, per non parlare di altri Paesi europei. Ha messo in questione, e di fatto rinunciato, a questi punti di forza in nome di conquiste territoriali vecchio stile in Ucraina: una guerra di tipo ottocentesco, ma con il nucleare sullo sfondo. Non riesco ancora a capacitarmi di quale sia stata la logica di tutto ciò, naturalmente al netto dell’idea di una vittoria rapida e senza particolari sacrifici, sull’esempio di quanto era avvenuto in tutt’altro contesto in Afghanistan. La guerra in Ucraina ha messo radicalmente in crisi l’idea che l’intensificarsi dei legami economici potesse di per sé portare alla pace. Quanto è avvenuto con la Russia dimostra che i fattori geopolitici influenzano profondamente i rapporti tra gli stati-nazione. Di qui appunto il ruolo di una diplomazia preventiva, di cui parla l’ambasciatore Ferrara.

Lei ha curato il centenario di Machiavelli a Firenze. Cosa può dirci sul pensiero autentico di questo genio del pensiero politico con riferimento al realismo politico invocato come un mantra assoluto proprio a partire da Machiavelli?
A Machiavelli è stata attribuita l’inaccettabile frase «il fine giustifica i mezzi». C’è arrivato vicino, ma non l’ha pronunciata. La frase in realtà fu dei gesuiti, che naturalmente oggi non la pensano più così. Machiavelli è stato il fondatore della scienza politica, analizzando senza pregiudizi le leggi che regolano il conseguimento e il mantenimento del potere, ma per conseguire «uno buono reggimento degli stati». Secondo il Foscolo, nei Sepolcri, è quello «che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue».

Al di là di questa interpretazione forse unilaterale, Machiavelli ha creato le condizioni perché di questi temi si parlasse laicamente. Certo egli non conosceva la democrazia che è fondata su regole ben diverse da quelle del suo tempo. Nel Novecento, Antonio Gramsci vide nel partito, “il moderno Principe”. Ma oggi chi è il Principe?

Da presidente del circolo intitolato ai Fratelli Rosselli come ha accolto l’esternazione fatta a suo tempo da Draghi di riconoscersi nel pensiero del socialismo liberale?
L’avevo accolta con grande speranza (come ho espresso in una mia intervista a Repubblica del 7 febbraio 2021) e ho cercato di dare il mio contributo per togliere Draghi dall’immagine di algido tecnocrate e identificarlo con quei valori che nella sua giovinezza aveva dichiarato come propri. Purtroppo le mie pronunce non hanno trovato risposta nelle sue esternazioni di pensiero politico. Nella sostanza egli era comunque l’allievo di Carlo Azeglio Ciampi. Questi però era stato il segretario della sezione di Livorno del Partito d’Azione prima del suo scioglimento e quindi aveva un’impostazione politica più radicata. Nelle mie intenzioni non volevo appiccicare etichette a Draghi, ma volevo portarlo ad esplicitare questa matrice che avrebbe potuto, secondo me, attirargli molti consensi. Oggi il problema che abbiamo è comunque proprio questo. Superare la divaricazione tra “tecnici” e “politici” e ritornare, in termini nuovi, a figure di politici tecnicamente preparati e di tecnici animati da passione politica.

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