Elogio del vetro
Fortuna, nell’antichità, di un materiale straordinario che ha rivoluzionato i vari ambiti della vita, dando un valido apporto al progresso anche scientifico dell’umanità
Vien voglia di annegarsi nel profondo blu scuro dello stupendo kantharos (coppa per bere) proveniente da Frascarolo, vanto del Museo archeologico di Pavia, la cui raccolta di vetri antichi – la più importante per quanto riguarda il Nord Italia – basterebbe da sola a evidenziare la fortuna di questo materiale trasparente o variamente colorato, capace di imitare le molteplici iridescenze della natura alla stregua di un marmo pregiato, che si fa ammirare nella varietà pressoché infinita di forme a seconda degli usi che se ne fanno, presso i nostri lontani progenitori.
Bello e prezioso, malleabile e pratico, fragile ed eterno al tempo stesso: ecco il vetro, questo figlio della sabbia, la cui origine va ricercata nell’area mediorientale fra il 3000 e il 2000 a. C. Solo gli antichi romani tuttavia riuscirono a produrlo su scala industriale, per dirla con espressione moderna, in concorrenza con la stessa ceramica. E ciò grazie alla geniale tecnica della soffiatura da loro introdotta: una delle poche invenzioni tecnologiche del mondo antico – se non l’unica – ad avere una ricaduta pressoché immediata sulla vita quotidiana. Questo modo semplice e rapido di modellare il vetro senza ricorrere a stampi, infatti, rese di uso comune anche nelle dimore più modeste un materiale di pregio inizialmente alla portata solo di una clientela facoltosa. Fu una vera rivoluzione, paragonabile solo all’impatto che ebbe la plastica nella vita e nelle abitudini dei popoli negli anni Cinquanta del XX secolo.
Il I secolo dopo Cristo sancisce il trionfo del vetro sulle tavole e nelle dispense romane. Rispetto ai recipienti metallici che alterano il sapore, infatti, aveva il vantaggio di essere un materiale neutro, insapore, ideale per vino e acqua, ma anche per gli altri alimenti. Ma il vetro non serviva solo per adornare le mense o per conservare meglio i cibi. Con questo materiale si realizzavano balsamari per unguenti e cosmetici. Applicato poi alle finestre degli edifici, determinò innovazioni anche nell’edilizia pubblica e privata, aprendo gli ambienti alla luce senza disperdere il calore. Né mancavano serre dotate di vetri per proteggere colture particolarmente pregiate. Con l’aggiunta di un fondo in piombo, gli specchi vitrei soddisfecero finalmente le esigenze di nitidezza soprattutto del gentil sesso, come non erano stati in grado di fare quelli bronzei o di altro materiale lucido. Sfolgoranti mosaici in pasta vitrea adornavano agiate dimore, terme e palazzi imperiali, e questa tradizione in epoca cristiana, evocando la luminosità del vetro un significato spirituale, avrebbe contribuito al misticismo delle basiliche bizantine. E ancora: il vetro, se adeguatamente conformato, aveva la capacità – nota fin dal V secolo a. C. – di concentrare i raggi del sole arrivando ad accendere un fuoco. Nel III sec. a. C. Archimede se ne servì per i suoi famosi specchi ustori, capaci di incendiare le flotte nemiche: episodio che si ripeté trecent’anni dopo durante l’assedio di Costantinopoli da parte di Vitaliano. Per tale proprietà di produrre bruciature, il vetro trovava applicazione anche nel campo della medicina, per cauterizzare ferite. Ed era adoperato anche in ottica, per correggere difetti della vista come la miopia. Inoltre, grazie alle sue caratteristiche di trasparenza e d’igiene, si prestava, molto più del metallo o della ceramica, a realizzare contenitori e oggetti per esperimenti scientifici e chimici.
Il vetro… e non si finirebbe di decantare le sue proprietà, per le quali venne chiamato in causa tanto nelle questioni filosofiche quanto in quelle scientifiche del mondo antico. Anche se la prima immagine offerta da questo materiale è quella di luminosa bellezza attraverso gli innumerevoli reperti giuntici dall’antichità fino ai nostri giorni, e grazie ai prodotti di fonderie famose come quelle di Murano e di Boemia, eredi di una gloriosa e millenaria tradizione.