Elisabetta Valgoi: il teatro è vita e sorpresa continua

Intervista alla vincitrice del Premio Ubu come “migliore attrice non protagonista” per lo spettacolo di Antonio Latella “Un tram che si chiama desiderio”, ancora in tournèe
Elisabetta Valgoi

Durante la cerimonia di consegna dei prestigiosi premi Ubu (gli Oscar del teatro italiano) avvenuta al Piccolo di Milano lo scorso dicembre, Elisabetta Valgoi ha dedicato al padre Mario – grande attore di teatro, scomparso nel 2005 – il premio vinto come migliore attrice non protagonista per lo spettacolo Un tram che si chiama desiderio con la regia di Antonio Latella.

E ringraziamenti al marito Leandro Amato, attore anche lui, e ai due figli: due splendidi gemelli di tre anni che «hanno cambiato la mia vita – confessa Elisabetta –. Forse prima non avevo un centro, adesso l’ho trovato. Con loro impari a conoscerti, a scoprire te stessa. Non puoi barare, non te lo permettono. Vedi delle persone che sono altro da te. E questo lo devi pensare fin dall’inizio».

Poi il ricordo del padre, che Elisabetta seguiva da bambina in tournèe: «Le volte che mi permettevano di poter stare due settimane con lui, spesso invece che in camerino stavo in platea. Avevo 7 anni, i tempi in cui papà faceva con Giorgio Strehler La tempesta, L’anima buona di Sezuan,Come tu mi vuoi. Questi e altri spettacoli visti proprio al Piccolo, e che continuo ad avere nella memoria, sono stati per me la scintilla».

Figlia d’arte, dunque la scelta di fare l’attrice è stata inevitabile?

«Forse una delle componenti che hanno influenzato la decisione di fare questo mestiere è stata perché era un modo per stare accanto a mio padre, per sentirlo più vicino. Lavorava molto (lo ricordiamo anche in celebri allestimenti goldoniani di Massimo Castri, ndr) e non erano tanti i momenti che, da piccola, potevo trascorrere con lui. Durante la premiazione, sopra quel palcoscenico che papà ha calcato innumerevoli volte, ho pensato tanto all’eredità che mi ha lasciato. Lui ha messo le basi; io poi ho deciso quali mattoni mettere. Il premio un po’ è come se lo avesse vinto lui, per tutto quello che mi ha dato. E ne sono fiera».

Sposata da nove anni con Leandro. L’incontro con lui…

«È avvenuto nel 1999. È stato per me un modo nuovo di capire e vivere l’amore in una maniera diversa: cioè la possibilità che si può sorridere insieme e non farsi del male. Mi ha anche aiutato a smitizzare l’amore e a renderlo più concreto, a capire il suo significato vero, e che siamo fatti di cose belle e altre meno belle, tutti. E allora impari a relazionarti arrivando ad amare anche il limite dell’altro, ad accettare la diversità. A dirlo sembra facile, ma è difficile. È cercare di capire cosa significa amare, soprattutto nei momenti di difficoltà. È un allenamento. Nella vita niente è scontato, soprattutto un sentimento».

Parlando dello spettacolo, premiato anche per la miglior regia, mi sembra che funzioni per il concorso di molti fattori. E il tuo personaggio, Stella, la sorella di Blanche, la protagonista, sembra calzarti perfettamente…

«Sì, credo proprio che abbia funzionato per un insieme di alchimie: un grandissimo testo (di Tennesse Williams), un grande regista, uno straordinario cast di attori (Vinicio Marchioni, Laura Marinoni, Giuseppe Lanino, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, ndr). A questo aggiungi un ruolo che senti tuo, e la maternità che ti dà una forza in più. E tutto questo è avvenuto quando non ho cercato più di voler avere a tutti i costi conferme dagli altri. Per la prima volta, con questo spettacolo, ho pensato solo a rimanere concentrata nel mio lavoro. Quando smetti di voler dimostrare qualcosa, allora forse lì succede che sono gli altri a volerti dare una conferma».

Elisabetta colpisce per la sua sensibilità, profondità, determinazione, forza e bellezza interiore. E per lo straordinario talento di attrice. La sua formazione è iniziata all’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, e proseguita lavorando con Massimo Castri, Maurizio Panici, Gabriele Vacis, Anatoli Vassiliev, Luca De Fusco, Giancarlo Sepe. Ma è con Antonio Latella, nome di punta della scena italiana ed europea, che intraprende un percorso che dura da anni, col quale condivide un’idea e un modo di fare teatro che, tra l’altro, trova nella condivisione del gruppo la propria forza.

Con Antonio hai esordito in Giulietta e Romeo, in Amleto, ne La dodicesima notte tutta al femminile, nella Trilogia della villeggiatura a Colonia e poi a Napoli, in Lear con Giorgio Albertazzi, e ora in Un tram che si chiama desiderio. Come hai lavorato per interpretare Stella?

«Il personaggio di Stella lo sento molto nelle mie corde. Il mio approccio con i personaggi di solito è molto emotivo, di pancia, per cui per me diventa essenziale il lavoro a tavolino e le prove. Serve a pormi delle domande e trovare delle risposte più razionali che mi aiutano a capire meglio il personaggio, a definirlo. Ed è fondamentale il rapporto con il regista e i colleghi. Con il Tram è stato fatto un grande lavoro sul testo. E il risultato è uno spettacolo esplosivo, che noi chiamiamo concerto-rock. Ci divertiamo sempre, e tutte le sere troviamo qualcosa in più da aggiungere. Perché un personaggio, quando te lo senti sempre più addosso, non finisce di sorprenderti. In questo secondo anno di ripresa dello spettacolo si sono chiarite delle dinamiche, degli elementi, che illuminano il rapporto tra i diversi protagonisti. Sono piccolezze, frammenti, sospensioni di sguardi, che però rendono poi più chiari a noi stessi tanti passaggi».

Per Latella la regia condivisa significa “comunione”. Poi, è chiaro, lui è l’artefice, porta la sua visione, lavora a un testo un anno prima. Ma poi lascia libertà agli attori…

«La lascia sempre, ma all’interno di un disegno, dove prima si discute insieme, ci si pone delle domande. Poi, su queste, dà la libertà delle proprie scelte e della propria creazione. Libertà necessaria per non fare morire nell’attore il grande senso di stupore che egli deve avere ogni sera nel creare, nel riempire, nel colorare il personaggio. Se un regista ti dà tutto finisce la magia».

Un aspetto importante per Latella è l’oculata scelta degli interpreti.

«Sì, c’è sempre un pensiero profondo nella scelta degli attori, una connessione, un trait-d’union tra la persona e il personaggio».

Cos’è che fa “essere” un attore?

«Tante cose, ma soprattutto una: il vivere la vita. Non basta solo osservarla negli altri. Non esiste la vita perfetta. Siamo fatti tutti del bianco e del nero. Se vivi la vita, nel bene e nel male, con le sue contraddizioni, le emozioni, le scelte, le vigliaccherie, inevitabilmente la riporti sul palcoscenico. Tutto aggiunge qualcosa alla vita: un sentimento, uno sguardo, cinque minuti parlando con una persona appena conosciuta, un amore mancato, una sofferenza, la visione di uno spettacolo, la lettura di un libro, il combattere per un obiettivo. Tutte queste cose confluiscono nel lavoro che fai sui personaggi. Ovviamente poi devi avere i mezzi tecnici ed espressivi per renderli».

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Abbiamo a cuore la democrazia

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons