Elezioni, l’Italia come laboratorio politico
Dopo un inizio sonnolento, complice la concomitanza delle ferie agostane, la campagna elettorale che eleggerà il nuovo Parlamento entra nel vivo e ci apprestiamo ad assistere come attori, più o meno protagonisti, agli ultimi giorni della contesa.
Il 25 settembre gli italiani saranno chiamati ad eleggere i deputati di Camera e Senato, i due rami del potere legislativo, dai quali ci si attende che emerga il nuovo esecutivo.
L’Italia è una repubblica parlamentare, i governi nascono e muoiono in parlamento, la retorica presidenzialista che ha avuto la meglio negli anni della cosiddetta “seconda repubblica” ha diffuso l’errata idea che gli elettori eleggano il proprio governo.
Si dà il caso che, invece, la forma di governo prevista dalla nostra Costituzione preveda che gli elettori eleggano il Parlamento e che sia questo a delineare le possibili maggioranze che indicheranno la compagine governativa che poi spetterà al capo dello Stato nominare. Come dicevamo poc’anzi, per la Costituzione italiana i governi nascono in Parlamento con un voto di fiducia.
Nonostante i numerosi tentativi esperiti nelle ultime decadi e le improbabili vocazioni maggioritarie sbandierate tanto a destra quanto a sinistra, il sistema dei partiti nel nostro Paese è ancora tutt’altro che bipartitico e neppure nettamente bipolare, sebbene da anni vi sia una tendenza, più esibita che consolidata, ad andare nella direzione di un bipolarismo di tipo anglosassone: liberal-conservatore a destra e liberal-progressista a sinistra. Si tratta di una tendenza ancora piuttosto acerba.
Effettivamente, credo che uno dei maggiori ostacoli ad uno sbocco bipolare di tipo anglosassone, sia il fatto che la cultura liberale, che dovrebbe fare da sfondo alle varianti conservatrice e progressista, appare decisamente debole e, di conseguenza, qualsiasi richiamo a queste due matrici politico-culturali, liberal-conservatorismo e liberal-progressismo, rischia di risolversi in puro mimetismo, con il suffisso “liberal” a fare da foglia di fico al più cieco conservatorismo e al più supponente progressismo.
Passando in rassegna le principali famiglie o culture politiche che esprimono l’offerta in questa campagna elettorale, a destra il conservatorismo sembra macchiato da rigurgiti populistici e sovranisti, oltre che da una mai sopita nostalgia neofascista, che trova spazio nel partito che tutti i sondaggi danno per favorito, “Fratelli d’Italia”.
Sappiamo che il fascismo appartiene ad un determinato momento storico e che si esprime mediante la conquista e il mantenimento del potere attraverso la violenza. Da questo punto di vista, il fascismo oggi sarebbe improponibile, per cui potrebbe non avere alcun senso sventolare le bandiere dell’antifascismo.
D’altra parte, sappiamo anche che i fenomeni politici non sono mai definitivamente consegnati alla soffitta della storia e che anche il fascismo, inteso come cultura politica che “quasi” divinizza il compito della politica e assegna all’autorità statuale il compito di grande sacerdote di tale religione pagana, è una minaccia sempre attiva, a prescindere dalle forme che essa può assumere nelle varie epoche storiche, per cui potrebbe avere sempre senso definirsi antifascisti.
Quanto al liberalismo espresso dall’area di centro-destra, benché nei proclami di alcuni suoi interpreti intenda scimmiottare il liberalismo classico e si mostri a favore del libero mercato e a difesa del rule of law, siamo costretti a registrare un suo forte arretramento a favore delle spinte protezionistiche e nazionaliste, rappresentate dal partito della “Lega” e da “Fratelli d’Italia”.
“Se Atene piange, Sparta non ride”. Così potremmo introdurre una sintetica rappresentazione di quello che accade invece nella coalizione di centro-sinistra. Il liberal-progressismo della sinistra è fortemente egemonizzato da una cultura radicale che si esprime nelle battaglie per i cosiddetti diritti civili: la legalizzazione della marijuana, la rivendicazione del diritto al matrimonio gay, le adozioni da parte di coppie omosessuali, il diritto all’eutanasia e tutto ciò che normalmente rientra nella cultura del gender.
La tradizione laburista del vecchio partito socialista e quella comunista sembra definitivamente archiviata, a favore di un modello sociale che la stessa sinistra definisce “progressista” e “avanzato” – ma in base a quale idea di progresso e di avanzamento sociale?
In realtà, tale modello che ostenta un certo ambientalismo e qualche forma di pacifismo, ci sembra meglio descritto dalla nozione di “società signorile di massa”, secondo la felice intuizione del sociologo Luca Ricolfi. Una società del diritto inteso come pretesa egoistica che rinuncia a qualsiasi tipo di correlazione dei diritti con i doveri.
Tra le due posizioni di centro-destra e di centro-sinistra si colloca un sedicente “terzo polo” – l’offerta politica di tipo liberale e riformatore che, almeno nelle dichiarazioni dei suoi interpreti, rifiuterebbe tanto il populismo e il sovranismo del centro-destra quanto il radicalismo populista e statalista del centro-sinistra, appellandosi all’ultima esperienza di governo, quella presieduta dal prof. Mario Draghi.
Queste sono le principali opzioni dell’offerta politica, dalla quale registriamo, forse per la prima volta in modo così netto, la totale assenza dell’arcipelago cattolico organizzato in uno o più partiti.
È evidente che i cattolici sono presenti, ma lo sono dentro contenitori partitici che non fanno alcun riferimento esplicito alla tradizione del cattolicesimo politico italiano.
Si tratta dell’esito di un lento processo, avviato nel 1992 con lo scioglimento del partito della Democrazia Cristiana, l’inizio di una diaspora segnata dalla nascita di una serie di piccoli partiti che si ispiravano a quella storia, e giunto a conclusione con il dissolvimento di quella presenza – sul fronte politico, oggi i cattolici sono presenti ovunque e ovunque irrilevanti.
Presenti ovunque e inefficaci dappertutto: questa è stata ed è l’agghiacciante situazione dei cattolici (persone anche bravissime e di prim’ordine) impegnate nei diversi partiti negli anni della diaspora, seguita all’implosione del loro partito di riferimento. Accampati in tende, nelle differenti formazioni politiche, il loro destino si è sostanzialmente risolto in vassallaggio, con magari “diritto di tribuna”.
Le sfide che attendono l’Italia, come peraltro tutti i Paesi democratici occidentali, sono tante e incredibilmente impegnative. Dalla transizione energetica, resa ancora più impellente dalla guerra in Ucraina e dall’imperialismo russo, alla crisi demografica che vede l’Italia uno dei Paesi con il più basso tasso di natalità al mondo.
Dalla crescente povertà, soprattutto tra le persone del ceto medio, alla presenza di un sistema politico istituzionale sempre più estrattivo, di tipo neofeudale. È questo un sistema politico che favorisce la formazione di oligarchie, le cristallizza e innesca un circolo vizioso che alimenta un sistema economico dominato da oligopoli, dove il profitto imprenditoriale non è la misura dello sviluppo di un Paese ma la rendita di posizione che il ceto medio paga ad una élite sempre più determinata a estrarre e ad accaparrarsi le ricchezze, piuttosto che a produrle.
Gli italiani sopravviveranno anche a queste prossime elezioni. Chiunque vinca, le sorti del mondo non saranno certo sacrificate sull'”Altare della patria” di Roma. Tuttavia, l’Italia ha sempre rappresentato un laboratorio politico e una vittoria schiacciante della destra sovranista o quella più improbabile della sinistra radicale e statalista potrebbe significare anche un’inversione di tendenza nelle opinioni pubbliche occidentali e favorire i tentativi di chi, pur per ragioni differenti, da Oriente a Occidente, vorrebbe condizionare la vita democratica e sacrificarla sull’altare delle “democrazie illiberali” o “radicali” che siano.
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