Elezioni in India, analisi di una realtà complessa
Modi ha vinto e lo ha fatto per la terza volta consecutiva, cosa che era riuscita solo al pandit Jawaharlal Nehru, padre della repubblica indiana e del Partito del Congresso.
Allo stesso tempo il partito del premier ha subito una cocente sconfitta. Il Primo Ministro, che aveva ottenuto più di trecento seggi nelle elezioni di cinque anni fa, si proiettava verso le quattrocento presenze sugli scranni del Lok Sabha, la Camera bassa del sistema politico-amministrativo indiano. Con quei voti, Modi ed il suo partito – il Bharatya Janata Party (Bjp) – avrebbero potuto fare quello che preferivano.
In molti lo paventavano: un assalto alla democrazia più grande del mondo. Il processo era avviato – e resta a buon punto – attraverso la maggioranza assoluta goduta negli ultimi 5 anni in Parlamento dal Bjp: Modi ha potuto far passare leggi discriminatorie contro le minoranze – in particolare contro i musulmani –, cambiare i testi scolastici facendo apparire la presenza musulmana nella storia dell’India come un assalto alla sua cultura e senza nessun accenno alla civiltà Moghul che rappresenta una delle maggiori ricchezze culturali, artistiche, linguistiche e religiose che l’India può vantare. Ha, inoltre, attuato riforme economiche controverse, ma senza che l’opposizione – praticamente inesistente – potesse fare molto.
In molti concorrono nel dire: questa volta in India ha vinto il pluralismo. In effetti, il partito del primo ministro Narendra Modi per poter governare nei prossimi cinque anni dovrà confrontarsi con due alleati influenti: il Janata Dal (United) e il Telugu Desam Party. Entrambi non hanno la valenza populista e fondamentalista indù del Bjp e operano più a livello locale che nazionale, sebbene lo facciano in stati popolosi e importanti come il Bihar e l’Andra Pradesh.
La National Democratic Alliance (Nda) che comprende il Bjp e i suoi alleati ha ottenuto 293 seggi, di cui 240 sono andati al Bjp. Nel 2019 il solo Bjp aveva superato i 300 seggi dei 543 disponibili. Tuttavia, ciò che più importa, è che per la prima volta da quando Modi è andato al potere, si è costituita una presenza credibile all’opposizione guidata dal Partito del Congresso, ancora animato dalla famiglia Nehru-Gandhi – oggi ne sono protagonisti Rahul e Priyanka, figli di Rajiv e Sonia Gandhi –. La Nda ha conquistato 232 seggi e, ciò che più conta, lo ha fatto inaspettatamente anche in circoscrizioni che appartenevano al Bjp.
Alcuni aspetti emersi chiaramente da queste elezioni fanno riflettere non poco. Il Bjp ha fallito in stati importanti e popolosi come l’Uttar Pradesh, il Maharashtra, il West Bengal ed è assolutamente assente in quelli del sud, in particolare il Tamil Nadu e il Kerala, che si vantano di aver arginato l’ondata color zafferano: l’arancione è il colore che simboleggia il fondamentalismo indù.
Inoltre, al di là dello scontro fra i due blocchi del Nda (guidato dal Bjp) e dell’India (sigla della coalizione guidata dal Partito del Congresso), i veri vincitori sono, come accennato, alcuni partiti regionali che fanno parte delle rispettive coalizioni (governo e opposizione) e che, nel caso di Modi, costringeranno a rivedere le scelte politiche nel prossimo quinquennio, non condividendo tutta l’agenda populista del leader.
Inoltre, Modi ha giocato la carta religiosa, che sembrava decisiva ad assicurargli una stra-vittoria. Aveva infatti inaugurato – come un vero purohit (sacerdote indù) – il nuovo tempio di Ayodya sorto sulle macerie della moschea distrutta da facinorosi indù nel 1992.
Ha puntato sulla religione anche negli Emirati, con la speranza di guadagnarsi i voti delle potenti e numerose diaspore indiane nel Golfo Persico. Ha condito i suoi discorsi di religione, spesso in modo arrogante nei confronti delle altre tradizioni, particolarmente dell’Islam; o seduttivo, come ha fatto con i cristiani.
Ma non ha funzionato, anzi la mossa si è rivelata un boomerang. L’India è e resta profondamente religiosa, ma gli indiani hanno oggi a che fare anche con altri problemi che necessitano di altri elementi per essere affrontati: la disoccupazione, le prospettive per i giovani, la sicurezza alimentare. Soprattutto dopo la pandemia, i ricchi sono diventati ricchissimi, ma i poveri si sono impoveriti ancora di più. La costruzione dei templi e le preghiere non bastano, le persone hanno problemi veri da risolvere.
In definitiva, si può sintetizzare in tre punti quanto avvenuto nella più grande democrazia del mondo. In primo luogo, gli elettori hanno punito Modi per aver anteposto il suo programma nazionalista indù alla correzione dell’economia diseguale dell’India. In secondo luogo, gli indiani hanno dimostrato la loro preoccupazione per il reale pericolo di un irrimediabile declino della democrazia liberale sotto il governo del Bjp. Infine, i partiti di opposizione hanno condotto una campagna intelligente che ha sfruttato le vulnerabilità di Modi in materia di economia e democrazia.
Molto del futuro del Paese sta ora nelle mani proprio dell’opposizione, che, dopo anni di vera latitanza politica, è tornata ad una parvenza di credibilità, o forse di più. Si tratta di vedere quanto la nuova opposizione riuscirà a riconquistare veramente la fiducia degli indiani.
Infine, molto di quanto avverrà sarà legato alla figura dello stesso Primo Ministro, ormai protagonista di un vero culto della persona, che l’India ha dimostrato di non gradire. Si tratta di vedere quanto le varie alleanze influiranno sia su questo che sulla politica dell’hindutva, l’ideologia che sostiene la supremazia dell’induismo.