Elezioni in Ecuador. Radici di un nuovo protagonismo

Uno sguardo sul Paese latino americano che ha visto crescere il peso politico dei popoli indigeni e ha inserito anche nella sua Costituizione il valore del rapporto con l'ambiente. Intervista a Gianni Tarquini di Terre Madri
Rafael Correa

L’America Latina rischia sempre di rimanere il continente che scompare dal mondo dell’informazione, eppure manifesta segni di dinamismo e di novità importanti. Significativa, ad esempio, è stata l’accoglienza tributata, lo scorso novembre, dall’università di Milano Bicocca al presidente ecuadoriano Rafael Correa, che ha tenuto una “lectio magistralis” sulla proposta ecuadoriana di uscire dalla crisi del debito. Domenica 17 febbraio oltre 11 milioni di elettori sono chiamati alle urne (il voto è obbligatorio dai 18 ai 65 anni) per eleggere non solo il nuovo presidente (i sondaggi danno Correa di nuovo vincente e l’ex ministro Acosta in crescita) ma anche i 137 membri del Parlamento.  L’Ecuador non è solo il Paese che ha offerti asilo politico ad Assange (caso WikiLeaks) ma è anche la nazione che ha deciso di non sfruttare le riserve di petrolio situate nel ricco Parque nacional yasuní, luogo sacro per le popolazioni locali.  Per cercare di capire il contesto in cui maturano alcune scelte politiche come quella della riscoperta dei beni comuni inseriti nel testo costituzionale ecuadoriano, rivolgiamo alcune domande a Gianni Tarquini, di Terre Madri onlus. Conoscitore diretto e autore di testi sul mondo andino, promuove, tra l’altro, la versione italiana dei siti specializzati sul continente latino americano in collaborazione con i “Traduttori per la pace”.

Si registra nelle popolazioni contadine del sud America una capacità di dare risalto politico alla sacralità della terra e quindi dell'acqua. In che modo questo nuoco paradigma riesce a farsi strada? Cosa è accaduto di significativo, finora, in Ecuador e in Bolivia?  

«Le popolazioni contadine, in particolare quelle originarie cosiddette indigene, sono state nei cinque secoli di colonizzazione escluse dal processo di costruzione sociale e dei diversi Stati nazionali. Ciò, insieme alle aberranti discriminazioni di vero e proprio tipo razziale, allo sfruttamento, alle umiliazioni e ai genocidi storicamente provati, ha, per una strana eterogenesi dei fini storica, permesso una preservazione culturale che si è mantenuta ‘sotto la cenere’ per questi lunghi e sofferti 500 anni. La visione olistica, il rapporto di integrazione, spirituale e quasi unitario con la natura, all’interno della loro cosmo visone, ha così resistito e, al momento del riscatto, è riemerso come elemento caratterizzante e fondamentale della loro cultura. E l’acqua è uno degli elementi fondamentali di questa relazione, spesso quello principale. Tutti i popoli amerindi conservano miti e leggende che, con sfumature diverse, vedono l’origine della vita nell’acqua (dal mare, dai laghi andini, dai fiumi dei boschi). Wiracocha, una delle più importanti divinità Inca e degli antichi Tiwanaku – che vivevano intorno al lago Titicaca -, era sorto dalle acque per creare lui stesso la terra, il cielo, gli uomini e le donne. Da questa visione è conseguita una gestione del bene rispettosa e di tipo comunitario e partecipativo. Difendere l’acqua vuol dire difendere il territorio, l’ecosistema e la stessa esistenza. Coincidono, così, l’elemento mitico e cosmogonico e quello pratico della sopravvivenza».

Cosa è successo negli ultimi anni?

«Quasi inaspettatamente, i movimenti indigeni hanno acquisito un crescente ruolo sociale e politico.  Le rivendicazioni e i successi ottenuti in alcuni Paesi, e tra questi in maniera rilevante in Bolivia ed Ecuador, hanno permesso l’affermazione di questi paradigmi. A una visione mercificata dell’esistenza e dei beni della natura, gli indigeni andini contrappongono il “buen vivir”, l’armonia con la “Madre Terra” e l’instaurazione di nuove relazioni tra gli esseri umani e tra questi e l’ambiente che li circonda. Nei due Paesi andini, con modalità e forme differenti, sono arrivati a condizionare la riscrittura dei patti di convivenza nazionale, attraverso le Costituzioni del 2008 (Ecuador) e 2009 (Bolivia), dove sono presenti elementi innovativi di portata internazionale, come la soggettività giuridica della natura.

Quali sono le peculiarità di queste Carte?

Nel preambolo della Carta ecuadoriana si “celebra la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza” invocandola prima del Dio cristiano. Entrambi i documenti sono incentrati proprio sull’istanza generatrice definita sumak kawsay, nella loro lingua, in cui si ravvisa l’esperienza di vita comunitaria dei popoli originari fondata sull’armonia tra esseri umani e natura. In Bolivia dal 2006 un indio di origini povere, Evo Morales, è Presidente della Repubblica. E prima ancora di questi avvenimenti così importanti i movimenti indigeni avevano ottenuto vittorie storiche, come la cacciata delle multinazionali che controllavano l’accesso all’acqua a Cochabamba, nel 2000, o la razionalizzazione degli idrocarburi boliviani, nel 2006».

Dopo questi primi passi, quali sono le sfide attuali?

«Dopo i secoli della “resistenza” e gli anni del  “riscatto” ora la cultura indigena è messa davanti alla prova di riuscire ad applicare in questi Stati i principi enunciati e legiferati. In questo dobbiamo mettere da parte i romanticismi ed analizzare i fatti e i conflitti che emergono con gli altri interessi e aspirazioni. L’America latina è storicamente un’area del mondo destinata a rifornire di materie prime le nazioni produttrici e questo si scontra con una visione rispettosa dei beni naturali».

 Quali ostacoli sono insorti?

«Anche i governi in carica, che hanno l’obiettivo dichiarato di recidere quel legame di tipo ‘coloniale’ che lega i loro Paesi alle multinazionali e ai paesi più ricchi, devono far ricorso ai loro beni più preziosi, e cioè le risorse energetiche e naturali, per ridistribuire il reddito e creare uno stato sociale che possa garantire i diritti basilari ai più poveri. Negli ultimi anni i movimenti indigeni si sono spesso scontrati con le decisioni prese dai presidenti Correa e Morales. Con il primo, in particolare, l’iniziale simpatia si è trasformata in vero e proprio contrasto politico. Si può così concludere che è stata segnata una strada solida ma il cammino è solo all’inizio e difficile. Quello che sta avvenendo in quei Paesi non è un semplice conflitto politico ma, con tutti i limiti umani, un tentativo di cambiare i paradigmi culturali dominati del mondo globalizzato, di ripensare le relazioni sul piano etico, che meriterebbe una maggior attenzione da parte di studiosi e politici anche qui da noi».

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