Elezioni e contrasto alla povertà

Le proposte delle maggiori forze politiche su un tema considerato centrale in vista del voto del 4 marzo. Compatibilità finanziarie e visioni generali a confronto
ANSA/CESARE ABBATE

Tra i punti cruciali di questa campagna elettorale spicca quello del contrasto alla povertà: un tema economico che si intreccia con le misure di sostegno al reddito. Le proposte avanzate dai partiti si connotano come promesse assai difficili da realizzare per i costi elevati che prevedono e la mancanza di indicazioni ragionevoli sul reperimento delle coperture finanziarie. Proviamo a dare uno sguardo complessivo.

 La cornice

La povertà è un fenomeno complesso che dipende da diversi fattori. Non è legato alla sola mancanza di reddito ma è anche strettamente connesso con l’accesso alle opportunità e quindi con la possibilità di partecipare pienamente alla vita economica e sociale del paese.

Nel sistema di welfare italiano, le politiche di lotta alla povertà hanno tradizionalmente giocato un ruolo residuale. Tali politiche sono rimaste deboli anche quando, negli anni più acuti della crisi, il numero dei poveri è aumentato significativamente.

Un primo livello di approccio al problema riguarda l’analisi quantitativa e qualitativa dei fenomeni emergenti di povertà, lo studio delle condizioni di povertà estreme e la definizione delle modalità appropriate di intervento. Un secondo livello attiene alla ricerca delle misure volte a sostenere i redditi delle persone e delle famiglie, con particolare riguardo agli interventi di inclusione attiva, finalizzati alla graduale conquista dell’autonomia.

Un elemento critico è rappresentato dal fatto che in Italia gli interventi di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale vengono promossi e attuati da più soggetti che fanno capo a diversi livelli di governo (nazionali, regionali e locali). E questo assetto non agevola né la lettura dei bisogni né la programmazione e la valutazione delle politiche per l’inclusione sociale, cosicché esse si caratterizzano per una gamma di iniziative e compiti differenziati sia per ambito di intervento sia per tipologia di strumenti.

Per contro, un elemento positivo è costituito dalla presenza sulla scena del cosiddetto “secondo welfare”, che si sta dimostrando un attore proattivo a livello nazionale e locale. All’inizio del 2014, per la prima volta, si è costituito un cartello di soggetti, l’Alleanza contro la Povertà in Italia, che mette insieme associazioni, terzo settore, sindacati, comuni, regioni, e che si è fatto promotore di politiche pubbliche più efficaci in materia di lotta alla povertà, promuovendo un’intensa attività di advocacy finalizzata a rendere la lotta alla povertà centrale nel dibattito politico e istituzionale.

Infine, in sinergia con le politiche nazionali, si inserisce anche la politica di coesione cofinanziata dall’Unione Europea con due programmi operativi di contrasto alla povertà: il PON Inclusione, cofinanziato dal Fondo sociale europeo, e il Programma Operativo FEAD, cofinanziato dal Fondo europeo di aiuti agli indigenti.

 Lo stato di fatto

Cosa significa essere poveri in Italia ed in quanti rappresentano questa categoria? Come afferma Andrea Musino Caradonna, «definito previamente un insieme di bisogni ritenuti essenziali (l’alimentazione, l’alloggio, il vestiario, la salute, l’igiene, l’istruzione, la vita di relazione), si parla di povertà assoluta nel caso di persone o di famiglie che non dispongono delle risorse che ne permettono un soddisfacimento minimo. La concezione di povertà relativa è invece correlata agli standard di vita prevalenti all’interno di una data comunità di riferimento: essa comprende bisogni che vanno al di là della semplice sopravvivenza, dipende dall’ambiente sociale, economico e culturale e quindi varia nel tempo e nello spazio»

L’ultimo Rapporto dell’ISTAT sulla povertà in Italia, relativo all’anno 2016 e pubblicato il 13 luglio 2017, fotografa una realtà preoccupante, stimando un totale di circa 4 milioni 300mila famiglie (pari al 17 percento della totalità delle famiglie residenti, ammontante a 25 milioni 700mila) e di circa 13 milioni 200mila individui (corrispondenti al 22 percento della popolazione residente, che sfiora i 60 milioni) che vivono in condizione di povertà sia assoluta che relativa.

C’è poi un’altra categoria di italiani, che vive “a rischio povertà ed esclusione sociale” e che è considerato uno dei fenomeni più indicativi della povertà stessa.  Secondo l’EUROSTAT circa17 milioni di italiani correvano questo rischio nel 2016 (pari al 28 percento della popolazione): di questi il 46,4 percento vive al Sud ed il 43,7 percento in un contesto di famiglie numerose.

In prospettiva comparata, l’Italia mostra tassi di povertà superiori alla media dei Paesi dell’Unione Europea.

 Le proposte dei partiti

Sulla scorta di questo scenario, sono tre le misure essenziali che i partiti politici hanno formulato per la prossima legislatura. Tutte e tre contemplano la parola “reddito”, ma secondo diverse declinazioni.

Per il M5S il principio di fondo è che “Nessuno deve rimanere indietro”. A tal fine mantiene ferma la barra sul suo storico cavallo di battaglia, il Reddito di cittadinanza, che si configura come una misura universale, in cui la selezione dei destinatari si basa su accertamento di reddito e patrimonio, con l’obiettivo di garantire un reddito minimo a quanti vivono sotto la soglia di povertà relativa. Il beneficio medio è pari a 12.175 euro l’anno per le famiglie molto povere (con meno del 20 per cento della linea di povertà) e decresce all’aumentare del reddito fino a circa 2.500 euro per le famiglie con redditi compresi fra il 60 e l’80 per cento della linea di povertà.

L’importo può spaziare dai 780 euro mensili per chi vive da solo, fino ai 1.900 euro per i nuclei familiari più grossi. Sarebbero 4,9 milioni le famiglie beneficiarie. Il reddito di cittadinanza può essere revocato qualora il beneficiario rifiuti più di due offerte di lavoro.

Il costo della misura per lo Stato è stimato dai 17 miliardi di euro (secondo l’Istat) ai 29 miliardi (secondo l’Inps).

Il ‘nuovo welfare’ di Forza Italia punta ad un aiuto ai nuclei familiari anziché alle singole persone. Da qui la definizione Piano Marshall per le famiglie”. Viene proposta la misura del Reddito di dignità, che si richiama all’idea del Premio Nobel Milton Friedman dell’imposta negativa (“Negative Income Tax”), secondo cui chi vive sotto la soglia di povertà assoluta non soltanto non dovrebbe pagare le tasse, ma dovrebbe ricevere un aiuto economico dallo Stato, variabile a secondo della situazione familiare. Sarebbero circa 2milioni le famiglie beneficiarie, con un trasferimento medio mensile di 480 euro mensili che può arrivare sino2mila euro per un nucleo familiare molto numeroso.

Costo dell’operazione stimato dai 17 miliardi di euro (secondo il Sole 24 Ore) ai 29 miliardi (secondo il sito la Voce.info).

Il PD vuole continuare sulle strada intrapresa sinora. Per i meno abbienti è stato creato dai governi di Renzi e Gentiloni il Reddito di inclusione  (Rei), che spetta alle famiglie che si trovano al di sotto della soglia di povertà assoluta. Si tratta di un sussidio il cui valore può arrivare sino a circa 500 euro al mese sotto forma di sostegno economico da un lato e fruizione di servizi dall’altro. Per adesso la platea dei beneficiari del Rei è limitata a poche centinaia di migliaia di famiglie (700mila circa), per un totale di meno di due milioni di persone. L’intento è quello di estendere progressivamente l’applicazione del Rei a un numero sempre maggiore di cittadini.

Ci sono dei criteri che consentono l’accesso al Rei: da un lato quello economico (un ISEE sotto i 6mila euro, un patrimonio mobiliare sotto i 10mila euro e quello immobiliare sotto i 20mila euro), dall’altro l’adesione del capofamiglia ai progetti che gli Enti locali dedicano alla inclusione sociale.

Il costo complessivo per lo Stato è stimato da circa 2 miliardi di euro fino a 3 miliardi a regime nel 2020.

Al Reddito d’inclusione come strumento di contrasto alla povertà guarda anche Liberi e Uguali, che tuttavia non lo ritiene sufficiente, puntando anche ad una estensione degli ammortizzatori sociali a quelle categorie non coperte in caso di disoccupazione.

Quest’ultima misura avrebbe un costo per lo Stato stimato in 10 miliardi.

Da parte di Brunetta (Forza Italia) , poi, si propone una legge che garantisca lavoro per tre mesi a tutti coloro che lo richiedano, e un’indennità di disoccupazione per altri tre mesi: costo preventivato sui 10 miliardi di euro annui. Renzi ricalca in certo modo questa proposta, affermando che la risposta del welfare per contrastare la povertà – in coerenza con l’art.1 della Costituzione – non è una rendita universale ma il “lavoro di cittadinanza” da definire nel dettaglio.

 

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