Elezioni, i confini mobili di destra e sinistra

Con la crisi della prima Repubblica è saltata la geografia politica tra destra e sinistra. L’attenzione ai contenuti reali della politica può essere la strada per una nuova partecipazione democratica Città Nuova dà spazio a riflessioni e proposte da parte dei propri lettori, nell’ottica di un dialogo aperto e costruttivo. Vedi il Focus "Dibattito verso le elezioni politiche".)
Elezioni Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Come cantava Gaber in quel fatidico 1994: «Ma cos’é la destra cos’é la sinistra. Una bella minestrina è di destra il minestrone è sempre di sinistra quasi tutte le canzoni son di destra se annoiano son di sinistra». Data cardine della storia italiana recente, il 26 gennaio 1994, il Cavaliere faceva la sua “discesa in campo” con un messaggio televisivo preregistrato che avrebbe modificato la grammatica della comunicazione politica nei decenni a venire. Ma quel 1994 rappresenta anche uno spartiacque per la rappresentanza politica del nostro Paese. La Democrazia Cristiana – il grande partito-Stato – che faceva coesistere al proprio interno, oltre al centro, pezzi di destra e sinistra, e ne produceva sintesi di governo, evaporava sotto i colpi di quello tsunami che fu la stagione di “mani pulite”.

Un vuoto di rappresentanza  progressivamente colmato, almeno in parte, dalla nascita di una serie di partiti, da Forza Italia ad Alleanza Nazionale, fino all’Udc. Anche il Partito Comunista si scomponeva in forme partitiche ora più socialdemocratiche – i Democratici di Sinistra – centriste o in continuità ideologica col passato, con tentativi di ricomposizione successiva come l’esperienza dell’Ulivo.

Un trentennio della vita del nostro Paese che ci consegna un tentativo di bipolarismo ancora oggi aperto, non ancora compiuto, articolato e sempre esposto ad una ulteriore evoluzione – oggi evidente per la presenza dei 5 stelle e del terzo polo – che ripropone la questione delle tradizioni politiche e delle aree culturali. Insomma, cos’è di destra e cos’è di sinistra?

Nei giorni scorsi il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, in un’intervista al Manifesto affermava che «la stagione del blairismo è consegnata alla storia». Per “blairismo” si intende quel tentativo di riposizionare la sinistra operato da Tony Blair, adottando politiche di stampo liberale (semplificando più mercato e meno Stato). La sinistra europea – e in particolare quella italiana – avrebbe seguito quell’esempio, tant’è che nel nostro Paese la più grande campagna di liberalizzazioni è stata operata da un governo di centro-sinistra capeggiato da Romano Prodi col suo ministro dell’Industria Pier Luigi Bersani.

Della grande rivoluzione liberale di Berlusconi rimangono i sabotaggi più o meno espliciti della Lega, di Alleanza Nazionale e dei centristi di Casini che di tutto fecero per impedire qualsiasi iniziativa di riduzione della presenza dello Stato e di allentamento di lacci e lacciuoli che impediscono al Paese di correre.

Se consideriamo il presente, alcune situazioni sono paradossali: coloro che si dichiarano liberali – es. Calenda – propongono ricette in sanità e pubblica istruzione in cui il ruolo dello Stato è molto più forte di quanto lo sia ora.

A destra Lega e Fratelli d’Italia hanno alcune proposte che potremmo, con le vecchie categorie, definire di sinistra, per esempio la maggiore presenza dello Stato in economia, segnalata anche dalla dichiarazione di Giorgia Meloni di non voler vendere Ita.

Nel programma elettorale della coalizione di centro-destra il taglio delle tasse (liberale) viene combinato con le pensioni finanziate dalla collettività (la grande illusione dello stato sociale di sinistra di fine secolo scorso) creando potenzialmente una forte ipoteca sulle risorse disponibili per le generazioni future.

I Cinque stelle sembrano propendere per politiche che in passato avremmo definito di sinistra, come il reddito di cittadinanza, ma anche una maggiore presenza dello Stato in economia.

Verrebbe da citare Mao Tse-tung: «C’è una grande confusione sotto il cielo». E infatti dialogando con tanti concittadini si percepisce il senso di disorientamento che attraversa la società italiana all’approssimarsi dell’appuntamento elettorale. È chiaro che non basta più dichiararsi di destra per fare “politiche di destra”, e lo stesso vale per la sinistra.

Dopo la grande stagione dello stato sociale, entrato in crisi negli anni ’80 del secolo scorso, seguito dal trentennio liberista, ormai ai titoli di coda, ci troviamo oggi ad un cambio d’epoca: forse è arrivato il tempo della fine della polarizzazione fra politiche che rispondono ad esigenze di libertà, tipiche della destra, con quelle dell’uguaglianza e della giustizia sociale, prerogativa storica della sinistra.

Le proposte che troviamo nei programmi elettorali delle diverse formazioni politiche – oltre che con gradi diversi di realizzabilità (alcune sono sogni!) – oscillano fra le due polarità, e per caratterizzarsi le coalizioni preferiscono muoversi su messaggi che parlano alla pancia della gente, usando simbologie sacrali o evocando fantomatici pericoli che minaccerebbero l’incolumità del popolo a seconda che vinca l’una o l’altra parte.

Coloro che avranno la pazienza di avventurarsi nella lettura dei programmi elettorali scopriranno che molte proposte sono trasversali a tutte le coalizioni e questo potrebbe rappresentare una buona piattaforma di dialogo parlamentare per la prossima legislatura.

L’impressione è che i processi politici ed il dibattito pubblico debbano cambiare passo: servono nuove sintesi, nuovi linguaggi che sappiano spiegare con verità e ragioni fondate – basate sull’efficacia già sperimentata – le proposte avanzate. Serve un’obiettiva analisi delle politiche pubbliche che mostri l’efficacia reale indipendentemente dal fatto che la ricetta sia “di destra” o “di sinistra”.

Perché la politica è concreta, e alla fine impattano la nostra vita quotidiana non tanto le dichiarazioni o i caratteri dei politici – utili forse per acchiappare o perdere voti – ma le scelte che diventano leggi effettive e azioni amministrative.

Alcuni incontri pubblici ai quali ho partecipato, in questa calda campagna elettorale, mostrano che quando si parla di politica, di proposte e di soluzioni concrete, la gente si appassiona. Quando si parla di politici, la gente scuote la testa o rischia di litigare sul nulla.

Forse perché, riprendendo Gaber, «l’ideologia l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia, è la passione l’ossessione della tua diversità, che al momento dove è andata non si sa, dove non si sa dove non si sa».

 

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