Eleonora, poetessa e rivoluzionaria
Un documentato testo della collana “Profili” di Salerno Editrice, Eleonora Pimentel Fonseca di Antonella Orefice, oltre a far rivivere la «città degli opposti» che era Napoli del Settecento, delinea la figura di una donna antesignana di un’epoca nuova: l’eroina della Repubblica napoletana del 1799 a cui è intitolato, in pieno centro storico, un liceo scientifico statale a me ben noto.
Portoghese di nascita, napoletana di adozione dopo il trasferimento dei genitori da Roma alla capitale partenopea, Lénor (Eleonora) de Fonseca Pimentel assunse un ruolo inconsueto per una donna del suo tempo, il XVIII secolo: fu infatti una delle prime giornaliste d’Europa e quale erede del riformismo di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, aderì alla causa repubblicana di quello scorcio di secolo in cui, scrive l’autrice, «sotto i colpi della Rivoluzione francese, le sue conseguenze e l’avanzata napoleonica, crollavano i pilastri di monarche secolari». Redattrice del Monitore Napoletano, organo di stampa del Governo provvisorio del 1799, Eleonora s’impegnò a diffondere le idee libertarie, lei che era stata poetessa e bibliotecaria della regina Carolina. Con la restaurazione borbonica e il ritorno sul trono del dispotico Ferdinando IV pagò con la vita tale impegno civile.
Un matrimonio infelice, combinato dai genitori come usava all’epoca, condizionò la sua vita: colta (proveniva da una nobile famiglia dove maschi e femmine indifferentemente avevano accesso alla cultura), intelligente, sposò a Napoli, dove era giunta bambina, Pasquale Tria de Solis, un rude militare di 19 anni più vecchio di lei, borbonico e ignorante, incapace di comprendere la moglie e geloso dei suoi libri, dei suoi rapporti epistolari; uno che dissipò la dote di lei tra donne e alcol, maltrattandola al punto da provocarle due aborti che le preclusero la possibilità di diventare ancora madre. Inevitabile il divorzio.
Unica gioia in questo inferno coniugale, da lei sopportato con estrema dignità, era stata la nascita, il 31 ottobre 1778, del figlio Francesco. Purtroppo, dopo solo otto mesi, l’adorato bambino spirò per aver contratto il vaiolo. Distrutta dal dolore, Eleonora sublimò la perdita nel canto poetico, pubblicando nel 1779 i Sonetti in morte del suo unico figlio a firma Altidora Esperetusa: il nome d’arte col quale, a soli 16 anni, era stata ammessa nell’Arcadia di Napoli.
Se le sue poesie precedenti oggi ci appaiono solo dignitose composizioni nello stile del Metastasio, essendovi quasi assente l’afflato poetico, non può dirsi altrettanto di questi cinque sonetti nei quali Eleonora esprime il proprio strazio materno: «Figlio, mio caro figlio, ahi! L’ora è questa/ ch’io soleva amorosa a te girarmi,/ e dolcemente tu solei mirarmi/a me chinando la vezzosa testa». Lo stesso Benedetto Croce, che non amava lo stile arcadico, riconobbe in essi – e nella successiva Ode elegiaca per un aborto – un’originale impronta personale.
A darle fama, tuttavia, non furono i versi (tant’è che la de Fonseca Pimentel non ha avuto un posto nella letteratura italiana), bensì il suo impegno civile contro la monarchia, la lotta instancabile condotta praticamente da sola dalle colonne del “suo” Monitore Napoletano, giornale da lei curato quasi come un sostituto del figlio perduto, consapevole com’era del potenziale, contenuto in questo mezzo, per educare il popolo alle nuove idee repubblicane ed emanciparlo dall’asservimento monarchico.
Nel romanzo Il resto di niente, dedicato al personaggio della Pimentel e alla rivoluzione napoletana del 1799, Enzo Striano le fa dire: «La libertà costa molto cara. Io adesso son libera. Posso scrivere dove mi pare, fare ciò che voglio. Ma son sola. Non ho più nessuno. Questo è il prezzo della libertà che mi ritrovo». E “martire della libertà” la ricorda una lapide in via di Ripetta n. 22 a Roma, dove Eleonora nacque il 13 gennaio 1752.
Donna di lettere e di scienze, se fu accettata negli alti circoli culturali non ebbe altrettanta accoglienza tra la piccola nobiltà, la borghesia e tantomeno il popolo, prevedendo il modello femminile dell’epoca soltanto la moglie sottomessa al marito o la suora in convento. La cultura, vista come una possibilità di emanciparsi dall’universo maschile, era infatti un privilegio per pochissime. Per questo scherni e invettive accompagnarono la “giacobina” Pimentel durante il tragitto dalla sua prigione alla vicina piazza Mercato, la piazza delle esecuzioni, dove sarebbe stata impiccata (i vendicativi Borbone, che non le avevano mai perdonato il suo voltafaccia dopo essere stata ammessa a corte, non le avevano concesso il privilegio riservato ai nobili di essere ghigliottinata). Ultima di altri sette patrioti giustiziati prima di lei, Eleonora salì a testa alta il patibolo, affidando ai posteri l’estrema speranza: «Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo».