Elena Pulcini e la scoperta della vulnerabilità

Scomparsa la filosofa che invitava a riconoscerci pienamente umani solo essendo “con” l’altro. Siamo carenti e imperfetti, quindi bisognosi dell’altro e della relazione con lui. Le dimensioni fondative di senso e di identità

Venerdì scorso si è concluso, a causa del Covid-19 e all’età di 71 anni, il percorso di vita di Elena Pulcini. Nata a L’Aquila, ma da anni fiorentina, dopo un iter accademico che l’aveva portata a perfezionarsi in Francia all’Università Paris III – Sorbonne Nouvelle, era diventata dal 1991 professoressa ordinaria di Filosofia sociale presso l’Università di Firenze, studiando in modo appassionato e originale i legami sociali, la cura, l’ambiente.

Nonostante termini il suo percorso esistenziale, prosegue la sua influenza “spirituale”, racchiusa in una eredità intellettuale fortemente colorata di tinte etiche, che suggeriscono come ormai non ci sia altra soluzione per l’umanità se non quella di riconoscersi come un “insieme plurale di esseri singolari”, cioè di trattarci sempre più come fratelli.

Il punto focale della sua riflessione, un punto soggettivo e profondo, legato alle nostre passioni empatiche, è la nostra (in quanto esseri umani) radice comune da riscoprire: la vulnerabilità. Essa, lungi dall’essere qualcosa di cui vergognarsi e rimuovere, è secondo la Pulcini da scoprire come una “risorsa” comune su cui innestare, di fronte alle profonde e travolgenti crisi che il mondo globalizzato vive, un “nuovo inizio” fondato sul riconoscimento di essere, in quanto uomini, carenti, imperfetti e quindi bisognosi dell’altro e della relazione con lui, quali dimensioni fondative di senso e di identità.

«La vulnerabilità – sosteneva la Pulcini – è una risorsa che consente al soggetto di tornare a pensarsi in modo relazionale». Una visione questa che può rappresentare un invito a continuare su una “terza via”, in linea con il pensiero di Marcel Mauss sul dono, legata alla convinzione che la vita umana si realizzi, oltre egoismo e altruismo, in posizione “ibrida” tra i due: non essere per sé, né essere per l’altro, ma riconoscersi esseri pienamente umani solo nell’essere “con” l’altro, quindi accettare di vivere scoprendo che senza l’altro non siamo.

In questo senso, l’eredità che questa studiosa lascia rivoluziona alcune nostre categorie: il nostro agire verso l’altro, quando è pienamente umano, non è frutto di bontà, né strumentale forma di autocompiacimento, ma “passione per l’altro intesa come desiderio di appartenenza, di legame” che tende all’universale, a tutti gli uomini ma ancora oltre, fino ad abbracciare il mondo intero (umano e naturale).

Oltrepassando la “follia narcisistica” dell’era dell’Antropocene che porta l’uomo ad agire come se non ci fosse nulla al di fuori di lui, siamo chiamati a prenderci cura, diventando degli “io globali”, come la Pulcini propone di chiamarci se saremo uomini e donne all’altezza delle sfide di oggi.

A Elena Pulcini allora un saluto grato, immerso nella consapevolezza di essere con lei in un debito di gratitudine, cioè in un rapporto che il sociologo G. Simmel direbbe “infinitizzato” perché marchiato da un dono ricevuto che non potrà mai essere totalmente ricambiato.

 

 

 

 

 

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