El Abrazo Partido
Due premi al Festival di Berlino: uno per la recitazione ed uno della Giuria. In effetti El abrazo partido ha vari pregi, è complesso, vivace ed originale. Siamo a Buenos Aires, sullo sfondo della crisi economica ed all’interno di una famiglia di ebrei di origine polacca, da cui il figlio trentenne, in crisi d’identità, sogna di fuggire verso l’Europa. Il piccolo mondo in cui è vissuto finora presenta dei comportamenti ch’egli non capisce e non accetta. La visione del regista non vuol essere quella di una persona matura avanti con gli anni, ma si uniforma a quella del giovane inquieto, non ancora uscito completamente da una fase adolescenziale protratta. La composizione del film è quasi nevrotica. I frequenti primissimi piani e i movimenti irregolari della telecamera, tenuta in spalla, ci introducono nel clima di smarrimento e di confusione in cui si trova il giovane. Quest’uso nervoso dell’immagine costituisce come un rumore di fondo costante, oltre il quale lo spettatore deve saper andare per cogliere le dinamiche dei sentimenti. Se lo fa, riesce ad apprezzare la buona recitazione non solo del protagonista, ma anche degli altri, che interpretano personaggi piuttosto strani. E nota che c’è equilibrio tra questa descrizione umoristica, caratteristica della commedia, e la drammaticità insita nel rifiuto di quella stranezza. La figura più inquietante appare quella del padre, che ritorna all’improvviso dopo vent’anni di lontananza. Uno dei pregi del film è l’abilità di far intuire i cambiamenti nelle reazioni del figlio, che poco alla volta comincia a dialogare con il genitore, accettando la travagliata storia della propria famiglia. E così incomincia ad avvertire egli stesso i primi impulsi della paternità. Regia di Daniel Barman; con Daniel Hendler, Adriana Aizemberg, Jorge D’Elia, Sergio Boris, Diego Korol.