Egitto: aiuti e ostaggi passano da Rafah
Il capo dell’informazione statale egiziana, Diaa Rashwan, ha dichiarato martedì 28 novembre che il 70% degli aiuti a Gaza è giunto dall’Egitto, attraverso il varco di Rafah, e che la tregua è sostenuta da «sforzi continui da parte dell’Egitto in cooperazione con i fratelli del Qatar e con un serio sostegno americano», accanto a «decine di Paesi, organizzazioni ed enti umanitari e politici». Rashwan ha anche fornito i numeri in tonnellate di questo impegno continuo a partire dal 21 ottobre (apertura controllata su pressione diplomatica Usa): 2.973 di aiuti medici, 11.972 di aiuti alimentari, 9.111 di acqua, 2.611 di attrezzature di soccorso, 1.178 di carburante. Tutto questo tramite 2.670 camion. Rashwan ha inoltre precisato che nello stesso periodo (poco più di un mese) l’Egitto ha accolto 575 feriti gravi e 320 accompagnatori, ha consentito il transito in Egitto, sempre attraverso il varco di Rafah, di 8.691 cittadini stranieri o con doppia cittadinanza e l’ingresso di 1.258 egiziani bloccati nella Striscia, consentendo anche a 421 abitanti palestinesi di Gaza che erano rimasti bloccati in Egitto, di entrare alla ricerca delle loro famiglie.
Durante la tregua in corso, inoltre, la sicurezza egiziana e la Croce Rossa Internazionale accolgono gli ostaggi israeliani liberati da Hamas proprio al varco di Rafah, per poi trasferirli in territorio egiziano, protetti da un cordone di sicurezza, pochi km più a sud, al check point di Kerem Shalom, e consegnarli alle Forze israeliane.
Ma se e quando la tregua finirà e riprendessero i bombardamenti israeliani anche a sud della Striscia di Gaza, l’Egitto sarebbe disposto ad accogliere profughi palestinesi? Pare proprio di no. L’Egitto non ha alcuna intenzione di consentire l’uscita di centinaia di migliaia di palestinesi verso la vicina zona desertica del Sinai, già nel recente passato teatro di forti infiltrazioni jihadiste durate anni. Il timore più forte del governo egiziano è che fra i civili di Gaza si nascondano membri di Hamas, o di altre organizzazioni collegate, che potrebbero poi attaccare Israele dagli eventuali campi profughi in Egitto, come è successo, in passato, in Giordania e in Libano. Con relative ritorsioni israeliane e l’annullamento degli accordi di Camp David e quelli di pace tra Il Cairo e Tel Aviv (1978-1979), che negli ultimi oltre 40 anni hanno garantito la cosiddetta “pace fredda” fra Egitto e Israele, con finanziamenti e aiuti statunitensi ai due Stati.
Un afflusso massiccio di palestinesi di Gaza nel Sinai egiziano è inoltre visto con grande timore e contrarietà dal governo egiziano per motivi economici e politici, non solo di sicurezza. L’economia egiziana è da tempo in condizioni disastrose, con un’inflazione annua al 38% e prestiti negati dal Fondo Monetario Internazionale a causa dell’altissima probabilità di non restituzione.
Inoltre, dal punto di vista politico e umanitario, una fuga in Egitto di centinaia di migliaia di palestinesi (i cittadini di Gaza sono oltre 2 milioni) prenderebbe i contorni di una seconda nakba (catastrofe, in arabo), dopo quella seguita alla alla guerra perduta del 1948 e alla costituzione dello stato di Israele. E molti dei palestinesi della prima nakba, fuggiti soprattutto in Giordania e Libano, sono ancora segregati in campi profughi: Israele non ha mai concesso loro di rientrare. Si stima che attualmente 5 milioni di palestinesi vivano in campi profughi in vari Paesi del Medio Oriente. Sono figli, nipoti e pronipoti dei profughi di 75 anni fa, e quelli che si sono aggiunti in seguito, anche di recente, spinti dai coloni ebrei ad abbandonare la Cisgiordania.
Oltre alla riluttanza dei palestinesi di Gaza a lasciare la loro terra per fuggire nel nulla di un campo profughi, sia l’Egitto che i palestinesi sanno bene che una volta usciti, i governi israeliani (quello di Netanyahu e quelli che lo seguiranno) con tutta probabilità non permetteranno mai alcun ritorno alle case (in piedi o distrutte) che hanno lasciato. Così l’odio degli uni verso gli altri è solo destinato a crescere. Solo una difficilissima decisione concordata e una forte ma ancora più complicata azione internazionale (come non c’è veramente mai stata) potrebbero tentare di cambiare questa situazione. Resta soltanto da convincere tutti che la pace è l’unico progresso possibile. E che la guerra non è mai, per nessuno, una soluzione.
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