Edipo re, tragedia in abito scuro
L’orrore della pestilenza abbattutasi su Tebe per colpa – come ha fatto sapere Apollo, tramite l’oracolo di Delfi – dell’impunito assassino di Laio, è reso dall’ingresso progressivo di una moltitudine di attori vestiti a lutto e con mascherine: un coro di 80 persone con in mano una veste nera come fossero salme, deposte a terra davanti a Edipo, mentre un sacerdote, parlando a nome del popolo, lo supplica: «Trova un aiuto per noi, che venga dalla voce di un dio o da un mortale. Risolleva questa città una volta per tutte». Una monumentale scalinata bianca sovrasta la cavea del teatro greco. La percorreranno quasi tutti i protagonisti della grande tragedia di Sofocle, su e giù da quella reggia che ingloberà anche il Coro in una coreografia geometrica che, nel finale, si predisporrà lungo tutta la scalinata per sentenziare davanti agli abitanti di Tebe: «Perciò, guardando alla fine di Edipo, nessun mortale ritieni felice, prima che varchi il confine della vita senza aver sofferto alcun male». Su questa scenografia lineare si consuma la salita e la discesa nel profondo dell’animo umano di Edipo re, l’archetipo dell’uomo che vuole conoscere a fondo se stesso, costi quel che costi.
Edipo ignora di avere ucciso il padre Laio che lo ha abbandonato bambino. Ignora di essersi congiunto con la propria madre, Giocasta. Ignora e perciò rifiuta il peso della colpa. Ma quando sa, non può sottrarsi alla maledizione. Resosi cieco per non aver voluto vedere gli orrori di cui egli, inconsapevole parricida e incestuoso, è stato causa e vittima, lascia la città di cui è stato re. Lo perdonano i sudditi, e con ciò si profila, nel dramma dell’uomo, una vena di solidarietà politica. Un “giallo” si ama ripetere spesso, un “poliziesco“ in cui l’assassino è innocente e la vittima è colpevole.
Il regista Robert Carsen punta tutto sulla parola del gran testo di Sofocle, facendone la protagonista assoluta. Nessuna distrazione visiva è concessa, neanche nei costumi – rigorosamente neri ed eleganti, ad eccezione di Tiresia e del servo di Laio, e con Clitemnestra in abito bianco – o altri effetti spettacolari. Arrivano, perciò, potenti le parole di quel rito antico, con la regia che si pone meritoriamente al servizio puntiglioso del testo, aiutata dalla scorrevole e limpida traduzione di Francesco Morosi.
Ad essa danno concretezza e spessore, con risultati alterni, gli interpreti tutti – Paolo Mazzarelli (Creonte), Graziano Piazza (potente nel ruolo di Tiresia), Maddalena Crippa (Clitemnestra), Rosario Tedesco (capo Coro) – con qualche perplessità sulla resa del protagonista Giuseppe Sartori, la cui recitazione, pur con tutto il trasporto fisico del ruolo, risulta alquanto monocorde, senza particolari sviluppi di cromatismi tonali che rendano il graduale evolversi emozionale di riflessione interiore dello sventurato sovrano. Apparirà nudo in cima alla scalinata dopo essersi accecato, e, rivestito dell’abito bianco della moglie che macchierà di sangue, lascerà la città salendo i gradini della cavea fra il pubblico che lo guarda nella sua sofferenza di reietto con l’incedere claudicante.
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