Edhi, un modello per i musulmani e non solo

Poco spazio è stato dato alla morte di un potenziale premio Nobel per la pace, un genio della solidarietà e della fraternità concreta. Muore nel suo Pakistan a 88 anni
Edhi e Bilquis Abdul Sattar © Michele Zanzucchi 2005

È morto a 88 anni Edhi Abdul Sattar, pakistano ma di origini indiane, noto come “la Madre Teresa dei musulmani” per la generosità con cui accoglieva chiunque avesse bisogno, ma anche perché è stato il primo ad aprire una camera mortuaria refrigerata a Karachi, specializzandosi nella pietosa raccolta dei resti umani dopo i tanti attentati che avvenivano nella grande città portuale pakistana. Il suo nome resta in qualche modo legato anche alle sue più di mille ambulanze, con le quali ha cercato di risolvere uno dei tanti problemi del sistema sanitario pakistano. Anzi, si può dire che Edhi abbia creato gran parte dell’assistenza pubblica del Paese musulmano. «È stato sepolto nella fossa che lui stesso aveva scavato 25 anni fa», ha detto ai funerali il figlio Feisal.

                                      

Sempre accompagnato da sua moglie Bilquis, suo vero alter ego, Edhi Abdul Sattar aveva in sé il germe della solidarietà pura, quella che non chiede chi tu sia prima di darti aiuto, se chiedi aiuto; quella che crede nella Provvidenza divina ma non si risparmia ogni colpo di genio umanissimo pur di trovare una soluzione ai casi più spinosi; quella che fa posporre la preghiera all’azione concreta, quando ce n’è il bisogno… Proprio ieri il papa ha parlato della parabola del buon samaritano. Ecco, Edhi era il buon samaritano dei musulmani.

 

Nel 2005 l’avevo conosciuto nel suo ambiente, a Karachi, perché con Lorenza Raponi avevamo deciso di scrivere un libro su di lui (Metà di due rupie, San Paolo 2006). Per una decina di giorni lo abbiamo seguito, anche se stava male in quel periodo, lo abbiamo intervistato mentre giaceva nella sua brandina nel retro dell’ufficio della moglie nell’Edhi House, abbiamo conosciuto le sue opere (dall’assistenza ai malati mentali, all’accoglienza delle giovani donne ripudiate, dai tossicomani agli orfani, dagli animali abbandonati alla camera ardente). Con lui lavoravano musulmani e indù, cristiani e buddhisti, persino atei: uno dei suoi inderogabili princìpi stava nel non fare discriminazioni religiose né di etnia, tantomeno di censo o di razza nelle sue opere.

 

Dicono che lo scorso anno fosse in lizza per ricevere il Premio Nobel per la Pace, ma la vicenda di Malala distolse l’attenzione dal suo operato: impossibile premiare due pakistani insieme. Ma so per certo che Edhi se la rise di grosso, perché era restio a ogni riconoscimento. Ricordo che nel 2007 ricevette il premio Lupo di Gubbio e in quell’occasione lo accompagnammo: quando si sistemava in un hotel, chiedeva sempre una stuoia per dormire per terra.

 

Resta un’eredità fragile, come fragile è la carità che fa gola ai “professionisti della solidarietà”. Resta Bilquis, la sua amatissima moglie, ormai anziana ma ancora capace di portare avanti l’opera del marito e sua. È vero, alcune delle sue iniziative hanno ormai preso la via della statalizzazione, tanto sono importanti per il Paese, ma c’è da sperare che le intuizioni semplicemente geniali del piccolo uomo pakistano chiamato Edhi Abdul Sattar continuino negli anni. E che il suo esempio di tolleranza e non violenza sia un modello per i suoi connazionali e correligionari.

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