Ecuador
Viaggio in un Paese dove abita ogni tipo di razza ed etnia.
A guardarlo sulla carta geografica, ci si rende conto come l’Ecuador sia davvero, da una certa prospettiva, il punto estremo del mondo. Per questo, è un Paese spesso ai margini delle grandi cronache internazionali, soprattutto in Europa. Sono necessari un tentativo di colpo di Stato, come alla fine del settembre 2010, o la questione del petrolio in Amazzonia e i conflitti con gli indigeni, che non permettono alle multinazionali di affondare le loro trivelle, per sentir parlare di questa nazione.
Sono arrivato a Quito verso la fine di luglio e ho incontrato persone di tutti i tipi, visitato i quattro angoli del Paese, camminato fra la gente, preso autobus, sono stato per le strade e nei mercati. Ho visto anche monumenti e musei, respirato odori, assaggiato con gusto il cibo locale e ammirato l’arte a diversi livelli, da quella coloniale a quella davvero coinvolgente di un grande come Oswaldo Guayasamín.
Mi sono incontrato con un Paese che può dare un contributo importante proprio oggi nel mondo globalizzato, caratterizzato da incontri e scontri fra gruppi etnici, linguistici e religiosi. Qui si trovano diverse culture, alcune seriamente discriminate per secoli, a causa del colonialismo e del neo-colonialismo. Il grande sforzo dell’Ecuador del nuovo millennio è proprio quello di recuperare comunità, culture, nazionalità e forme di religiosità locale. Colpisce una nazione che ha avuto il coraggio, dopo quasi due secoli di indipendenza (caratteristica molto interessante di tutta l’America andina), di rimettersi in discussione, elaborando una nuova Costituzione approvata con un referendum popolare nel settembre del 2008: ha provocato tensioni fra diverse espressioni del Paese, in particolare con la gerarchia cattolica, ma ha messo in evidenza alcuni aspetti fondamentali della ricchezza, non solo economica, dell’Ecuador. «Qui è necessario saper dialogare. Se in un Paese come questo, in fondo non grande, riusciamo a portare la vera fraternità, un giorno potremo dire: “Venite in Ecuador se volete vedere un popolo unito”». È il commento significativo di una personalità autorevole che ha visitato la nazione andina nei mesi scorsi.
Nelle tre settimane di permanenza fra Quito, Guayaquil, Esmeraldas e Puyo, ho incontrato indigeni che, dopo una iniziale simpatia nei confronti dell’attuale presidente Rafael Correa, lo accusano ora di non aver avuto il coraggio di andare a fondo nelle riforme promesse e di politicizzare il rinnovamento desiderato e i processi di dialogo interculturale e interetnico. La politica rappresenta una chiave di volta. Le comunità sono chiamate a proporsi a livello nazionale, ma spesso i loro rappresentanti vengono poi invischiati nei giochi politici, causando, in tal modo, la perdita del contatto con le comunità di origine, che non li riconoscono più come loro espressione.
È, tuttavia, innegabile che si è iniziato un processo. Certamente sarà lungo, perché necessita di chiarimenti e di scelte future, di impegno in un dialogo paziente fra tutte le componenti etniche, linguistiche e sociali, prima di tutto, ma anche politiche, istituzionali e religiose. Ma importante è che si è aperto qualcosa di nuovo in cui tutti, anche se in modo diverso, si sentono coinvolti.
In questo mondo di rapporti complessi e di identità da recuperare, la Chiesa non sempre trova facilmente il suo ruolo. Tuttavia, è presente e viva. In due parti del Paese emblematiche della sua diversità – Quito, la capitale, sulla Sierra Andina, e Esmeraldas, sulla costa, dove prevale l’etnia afro –, ho incontrato gruppi di laici decisi ad aprirsi nel quotidiano e con progetti specifici all’incontro con comunità indigene, per realizzare il principio dell’intercultura, di cui parla la Costituzione ben undici volte. A questo si aggiunge l’impegno, come cristiani, della palabra de Dios, quella parola che, se fatta vita, diventa un agente trasformatore importante. La necessità di costruire comunità autentiche a livello locale è un passo fondamentale per poter dar vita a una vera integrazione sul territorio.
L’Ecuador, grande laboratorio di intercultura, può davvero offrire al mondo un modello imitabile e sostenibile di incontro e convivenza.