Economia, politica e armi. Cosa ci insegna il caso dell’ospedale Bambino Gesù
Continua a far discutere il caso della donazione di denaro rifiutata dall’ospedale Bambino Gesù perché offerta dalla società Leonardo. Permette di entrare nel merito l’intervento critico di Matteo Gianni pubblicato su cittanuova.it.
Prima di tutto Leonardo ha smentito la versione di Orazio La Rocca su Repubblica mentre il Gaslini ha smentito, a sua vola, di aver ricevuto la somma contesa, che poi è una briciola per un bilancio come quello di Leonardo.
Continueremo ad indagare. Ma il nocciolo della questione resta la fornitura di armi per i conflitti in corso, a partire dall’orrenda tragedia in corso nella Terra Santa.
La legge 185/90 non ha abolito la produzione di armi, ma ha posto delle regole alla loro esportazione in linea con i principi costituzionali di ripudio della guerra e delle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (articolo 11 Costituzione).
Nell’articolo ho citato le forniture in corso ad Israele e gli stretti rapporti della nostra aviazione con quella di Tel Aviv ora impegnata nei bombardamenti a tappeto su Gaza. Non sono elementi seri da valutare?
Non risultano forniture italiane all’Iran o ai ribelli Houti dello Yemen, ma esistono relazioni importanti con l’Arabia Saudita che è uno dei maggiori acquirenti di armi a livello mondiale e promotore del maggiore expo del settore, il World Defense Show, che si terrà dal 4 all’8 febbraio e dove l’Italia sarà presente con Leonardo, Fincantieri e altre società, controllate o meno dal capitale pubblico.
È una scelta inevitabile perché gli investimenti effettuati devono avere un ritorno e uno sbocco sul mercato. Vendiamo armi alla Turchia, Paese Nato, che le usa sui curdi, nonché le vendiamo all’Azerbaijan, da cui compriamo il gas ma che è in conflitto con l’Armenia ed ha epurato violentemente la presenza armena, che durava da millenni, nel Nagorno Karabakh.
C’è chi è contrario in assoluto alle imprese delle armi. Una tensione morale che resta necessaria, ma la scelta realistica comune dovrebbe essere quella almeno di puntare ad una politica di difesa comune europea ancorata a valori condivisi e quindi tali da rispettare alcuni limiti in tema di esportazione di armamenti.
Al momento le imprese europee di armi sono in competizione tra loro per conquistare le piazze più ambite seguendo un principio ribadito che suona così: “se non le vendiamo noi le armi, altri lo faranno comunque al nostro posto”.
La scelta di una politica di difesa condivisa comporterebbe una razionalizzazione e riduzione del budget dedicato alle armi, liberando risorse per altre politica di difesa, ad esempio dal dissesto idrogeologico e dalla scomparsa del servizio sanitario nazionale.
In tal senso non può essere un tabù affrontare la questione di come stare all’interno della Nato senza che neanche si conosca il concetto strategico di difesa adottato nel giugno 2022 a Madrid. Altri Paesi dell’Alleanza atlantica ad esempio hanno rifiutato di detenere armi nucleari sul proprio territorio, al contrario dell’Italia che ospita decine di ordigni tra Ghedi e Aviano senza voler neanche discutere del trattato Onu che le mette al bando. Istanza sollecitata da oltre 50 associazioni del mondo cattolico italiano.
Leonardo è un grande patrimonio pubblico da valorizzare ma che scelte politiche trasversali hanno portato, negli ultimi decenni, ad una conversione progressiva verso il militare a discapito del civile. E questo nonostante la presenza di aziende dismesse nonostante il loro valore di innovazione tecnologica e capacità occupazionale. Rimando sul tema all’intervista fatta a suo tempo all’ex presidente di Confindustria Genova Stefano Zara.
Leonardo ha prestato i droni per la logistica dell’ospedale Bambino Gesù così come potrebbe fare Amazon con la sua flottiglia di droni programmati per consegnare la merce. Gli aerei possono essere usati per motivi umanitari. Esempi di come indirizzare la produzione in un modo o nell’altro. Sono molti ambiti ad esempio nel mercato della difesa i cosiddetti “droni kamikaze” sperimentati con successo dall’aviazione azera contro l’esercito armeno nel 2020.
Non si parla di criminalizzare le imprese di armi e soprattutto chi ci lavora. Sono stati alcuni lavoratori dell’Aermacchi a portare l’Italia ad approvare la legge 185/90 con il loro rifiuto di costruire armi dirette al Sudafrica razzista. Così è stata l’obiezione delle operaie della Valsella di Brescia a spingere l’Italia ad aderire al trattato di abolizione delle mine antiuomo di cui purtroppo il nostro Paese è stato in passato uno dei maggiori produttori.
Elementari principi di democrazia economica per cui chi lavora pretende di contare nel definire “cosa, come e per chi si produce”.
La legge 185 del 90 prevede la costituzione di un fondo per la riconversione che non è mai stato alimentato.
Emblematica in tal senso è la vicenda del Sulcis iglesiente. Qui una multinazionale tedesca controlla una fabbrica di missili e bombe che esporta i prodotti in Arabia Saudita, Paese capofila di una coalizione militare impegnata nel conflitto in Yemen, definito dall’Onu un disastro umanitario dove si colpiscono scuole e ospedali. Il comitato riconversione che è sorto sul territorio, stringendo rapporti a livello internazionale, rifiuta il ricatto occupazionale e propone una diversa economia dando vita ad una rete di imprese Warfree.
È un esempio concreto di consonanza con l’insegnamento di papa Francesco che evidentemente dà fastidio a molti. Opporsi all’economia che uccide è un punto fermo del suo pontificato che il Movimento dei Focolari cerca di seguire prendendo posizione e attivandosi pubblicamente. A tal fine è stato promosso dal 2014 un gruppo di lavoro dedicato all’Economia disarmata.
Si possono avere idee diverse su tante questioni (dalle migrazioni al fine vita per avere un’idea), ma soprattutto davanti alla complessità del mondo che appare avviato verso un conflitto mondiale senza ritorno con l’uso dell’arma nucleare.
Giorgio La Pira parlava del crinale apocalittico della storia ed era convinto dell’esistenza di una profonda corrente sotterranea verso la fraternità e unità dei popoli. Difficile crederci oggi ma intanto è necessario opporsi ad una nuova egemonia della cultura della guerra.
La pastorale sociale del lavoro della Cei ha dedicato sabato 13 gennaio, a Bozzolo, una giornata sulla lezione di Mazzolari e Milani dal titolo emblematico “Guerra alla guerra” per ribadire l’attualità di due segni di contraddizione e testimoni di pace che hanno sofferto incomprensioni all’interno della propria Chiesa
Rimando al dossier Pace di Città Nuova, promosso proprio come base di un dibattito aperto.