Economia e felicità
L’accostamento fra ricchezza e felicità è, per molti, ovvio, quasi che, al crescere dei beni disponibili, anche il cuore si sollevasse in maniera proporzionale. Dall’altra parte stanno tutti coloro che nei confronti dei beni materiali ostentano un sovrano disprezzo, proprio perché ritengono che la felicità stia altrove. In mezzo, si colloca la grande maggioranza degli incerti, i quali, non avendo un’esperienza personale e diretta della ricchezza, non azzardano giudizi definitivi: sono disponibili, però, ad eventuali esperimenti. Scherzi a parte, l’accostamento fra economia e felicità non è frequente negli studi economici; solo negli ultimi anni si è acceso un interesse in tal senso, collegato, almeno in parte, alle nuove realtà economiche create dall’economia civile, all’interno della quale il progetto della Economia di Comunione ha certamente fatto la sua parte. Due importanti libri, in uscita in questi giorni, testimoniano efficacemente un nuovo clima diffuso fra gli economisti: Felicità ed Economia. Quando il benessere è ben vivere (edito da Guerini), nel quale Pier Luigi Porta e Luigino Bruni hanno raccolto saggi di economisti di primo livello; e L’economia la felicità e gli altri (Città Nuova Editrice), dello stesso Bruni. Proprio a lui ci siamo rivolti per cercare di comprendere il significato e la portata di questa nuova riflessione introdotta in campo economico. Il prof. Bruni, docente di Economia Politica e di Storia del pensiero economico all’Università di Milano-Bicocca. Prof. Bruni, l’interesse dell’economia per la felicità è un fenomeno recente, o ci sono dei precedenti storici significativi? Possiamo dire che l’economia moderna nasce proprio con la felicità. Infatti, la tradizione italiana dell’economia, milanese e napoletana in modo particolare, nella seconda metà del settecento scelsero la felicità come concetto centrale della nascente scienza economica. La felicità era però pubblica (quindi da non confondere con il piacere o la contentezza momentanea), non solo perché il compito di creare le condizioni per la felicità era affidato anche ai governanti, ma perché, come dicevano, posso essere ricco anche da solo, ma per essere felici occorre essere almeno in due, perché si è felici grazie e con gli altri. Il pensiero cristiano ha mai collegato fra loro economia e felicità? La tradizione napoletana – pensiamo a Vico o a Genovesi – era profondamente radicata nel messaggio cristiano. Ma possiamo ritrovare il collegamento tra economia e felicità nell’Umanesimo Civile, nella Scuola Francescana, e anche in molta parte della riflessione del monachesimo, e, andando più indietro nel tempo, anche la prima riflessione dei Padri aveva attribuito molta importanza al rapporto tra beni e ben-essere, alle condizioni che fanno sì che i beni, la ricchezza, siano mezzi per una vita buona. Dopo l’Illuminismo forse l’attenzione al rapporto tra economia e felicità è rimasta sullo sfondo anche della riflessione degli economisti cri- stiani, ma ultimamente l’interesse sta tornando con forza. La scienza economica, al suo nascere, prendeva in considerazione la felicità, oppure è una scienza triste fin dagli inizi? Abbiamo detto della tradizione italiana. La scienza economica ufficiale non ha continuato la tradizione italiana, più antica, e si è concentrata sulla ricchezza della nazione, e in particolare su come aumentarla (divisione del lavoro, commercio internazionale) e come distribuirla tra le classi sociali. Forse per questo motivo, attorno alla metà del 1800, si è meritata l’appellativo di scienza triste (dismal science), coniato dallo scrittore inglese T. Carlyle. Se però guardiamo più in profondità ci accorgiamo che questo appellativo è in parte ingiusto: in molti del primi economisti inglesi (certamente Smith e Malthus) era molto chiaro che la ricchezza è solo un mezzo per vivere meglio: e in un mondo che cercava ancora di uscire dall’estrema povertà questa tesi è probabilmente vera. Nel mio libro ho cercato così di mostrare che non solo a Napoli e in Italia, ma anche in Inghilterra c’è una tradizione dell’economia (che arriva fino al Novecento) che distingueva molto bene i mezzi (ricchezza) dai fini (felicità), e che si interessava anche dell’analisi di cosa accade quando ci concentriamo troppo sui mezzi e li facciamo diventare fini, e quindi ci inganniamo. Un noto proverbio dice che il denaro non dà la felicità. Molti non sono d’accordo, e cercano di farne il più possibile. Ma i fatti dimostrano che, oltre un certo livello di ricchezza, la felicità diminuisce: come funziona il meccanismo? Ciò che emerge dalle ricerche su reddito e felicità mostra un quadro più complesso del proverbio, e dei suoi critici. Innanzitutto tutte le culture sanno che il denaro, da solo, non può dare felicità: se c’è un icona della non-felicità questa è probabilmente l’avaro. Ma perché l’avaro non è felice? Perché, anche senza accorgersene, trasforma il mezzo (denaro) in fine, e fa dell’accumulazione del denaro lo scopo principale della sua vita; una vita che poi non fiorisce, e si chiude su se stessa. Al di fuori dell’avarizia, il denaro può portare a più felicità: non occorrono molti studi per capire che quando si è nell’estrema povertà un maggior reddito porta ad una vita migliore e più felice. Ciò non è sempre vero (dipende da come quel reddito aumenta), ma i dati mostrano che in media è così. C’è però una soglia, un punto critico superato il quale il rapporto virtuoso reddito-felicità si inverte e può diventare vizioso. Perché? Buona parte del mio lavoro di ricerca cerca di rispondere a questa domanda; ma forse l’idea di fondo può essere così riassunta: non è facile accorgersi quando stiamo per oltrepassare quel punto critico (ad esempio se stiamo lavorando troppo), perché siamo sottoposti a diverse forme di inganno della nostra razionalità. A suo avviso, da che cosa nasce, in tempi recenti, l’interesse degli economisti per la felicità? Non pensa che ci troviamo davanti, in una certa misura, ad una sorta di reazione dello spirito nei confronti dell’aridità dei sistemi economici contemporanei? L’interesse è dovuto, credo, a due ordini di ragioni. Innanzitutto il processo non è partito all’interno della scienza economica: gli economisti sono stati contaminati dagli psicologi e in parte dai sociologi, che nei primi anni settanta cominciarono a riportare dati sperimentali che mostravano il paradosso della felicità, e cioè che il reddito sembrava essere molto poco correlato alla felicità, almeno nelle società più ricche (Usa e Europa). Da qui la sfida di quei primi psicologi: perché preoccuparsi troppo dell’aumento del reddito, del Pil (prodotto interno lordo), se questo non ci fa star meglio, ma addirittura peggio? Da queste indagini sono nate due correnti di studi tra gli economisti: da una parte coloro che hanno sviluppato nuove teorie economiche per spiegare quel paradosso (e questo è il filone principale), dall’altra chi invece, forse per un richiamo ancestrale ai primordi della scienza economica, sente di dover mostrare che lo studio per aumentare la ricchezza o il benessere materiale è ancora oggi importante, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Questo secondo filone ha come leader l’economista indiano Amartyia Sen, che sostiene che il sentirsi soggettivamente felice è meno importante della felicità oggettiva, cioè alla qualità della vita che la gente di fatto sperimenta (salute, educazione, libertà, diritti …). Personalmente sento molto vicina questa impostazione culturale. Quali sono i pensatori che maggiormente hanno contribuito ad aprire questa diversa prospettiva per l’indagine economia? La maggior parte degli economisti che oggi si interessano alla felicità sono convenuti, nel marzo del 2003, a Milano-Bicocca per il convegno internazionale L’economia e i paradossi della felicità. Il libro curato dal prof. Porta e da me raccoglie dieci tra le tante relazioni presentate (altri volumi con le altre relazioni sono in corso di pubblicazione con editori inglesi). Il libro che ho scritto per Città Nuova è invece, da una parte, un tentativo di sintesi delle principali direttrici del dibattito attuale su economia e felicità, e, d’altra parte, una storia dell’idea di felicità in economia, da Aristotele ad oggi, dalla quale emerge che non sono pochi gli economisti della felicità di oggi e di ieri. Il tutto visto da una prospettiva particolare: la dimensione interpersonale, la mia felicità e quella degli altri; da qui il titolo scelto: L’economia la felicità e gli altri. Un’altra parola chiave di questi lavori è paradosso: proprio perché la felicità è per sua natura relazionale, la mia felicità dipende anche dagli altri, dalla loro risposta, dalla reciprocità. E per questo che la vita civile è sempre fragile, ma … è l’unica vita buona. Ritiene che si stia schiudendo un nuovo paradigma per l’economia? Tanti segnali vanno in questa direzione. Mi limito a due considerazioni. In primo luogo l’economia, come sviluppo di una riflessione sulla propria identità, si sta accorgendo che ci sono troppi fenomeni economici importanti che le sfuggono se non diventa più relazionale. Oggi il bene scarso – da sempre l’oggetto della scienza economica – sono anche (e forse soprattutto) i rapporti interpersonali genuini, e se l’economia resta ideologicamente ancorata ad un idea di individuo solipsista e autointeressato rischia di perdere il contatto con dinamiche sociali molto importanti, come il movimento dell’economia sociale o civile, il funzionamento delle organizzazioni, o il rapporto reddito-felicità. In questo senso il volume curato da Benedetto Gui e Robert Sugden, Economics and Social interaction (Cambridge University Press, in corso di pubblicazione), può rappresentare un momento significativo. In secondo luogo, si sta assistendo ad un nuova ricerca di unità tra le diverse scienze. Dopo l’Illuminismo ogni disciplina ha voluto studiare, indipendentemente, il suo pezzo della vita sociale: economia, sociologia, psicologia, ecc. Questo ha portato a frutti enormi nel campo tecnico e scientifico, ma ha anche fatto sì che nessuna disciplina, da sola, ha più il linguaggio per comprendere e descrivere i fenomeni sociali nella loro complessità. Negli ultimi anni è invece forte l’esigenza di arrivare ad una scienza sociale unificata che, arricchita dalla diversità, porti ad una nuova comprensione della società. Il dipartimento di Economia Politica (Milano-Bicocca) dove lavoro ha dato vita ad un centro interdipartimentale (Ciseps) per lo studio del benessere, del comportamento e della razionalità, dove studiosi di diverse discipline lavoriamo assieme per dare un nostro contributo ad un nuovo linguaggio che complichi l’idea di comportamento che ogni singola disciplina ha nella sua storia sviluppato ma necessariamente semplificato. I nostri lavori sulla felicità sono già un inizio di questo: psicologi, sociologi, filosofi ed economisti, in dialogo alla ricerca di un nuovo paradigma interdisciplinare e relazionale, per dar conto di quel qualcosa di costitutivamente relazionale, e paradossale, che è la felicità.