Ecoansia, il peso psicologico della crisi climatica durante la COP28
Ieri si è ufficialmente conclusa la COP28, ventottesima Conferenza delle Parti per il Clima. Il testo finale formalmente approvato dall’assemblea plenaria della Conferenza reputa necessario «allontanarsi gradualmente dall’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza». Una frase frutto di compromessi e negoziati politici, che risulta essere un passo avanti rispetto alle precedenti Conferenze per il riferimento esplicito all’abbandono di combustibili fossili, ma che risulta tuttavia ancora solo un appello e non un vincolo per i governi.
Capita sempre più spesso che dalla poltrona di fronte alla mia si alzino voci angosciate sul proprio futuro piuttosto che dal proprio passato. Sfidando lo stereotipo su psicoterapia e infanzia, i miei pazienti, specie i più giovani, decidono di mettere tra parentesi quella che è stata la loro vita passata, arrivando invece a chiedermi e a chiedersi che senso abbia immaginarne una futura. Il timore sulla sopravvivenza individuale che si fonde all’angoscia di sopravvivenza come specie ha assunto negli anni una valenza clinica significativa, meritevole di una propria dicitura: ecoansia.
La crescente consapevolezza dei devastanti effetti del cambiamento climatico ha generato un insieme di preoccupazione, rabbia e impotenza. Questo stato psicologico, sebbene subclinico – non rappresenta dunque un disturbo a sé – sta rappresentando un rischio per la salute mentale particolarmente tra i giovani, gli scienziati e gli attivisti, angosciati da una prospettiva di progressivo annichilimento percepito ormai come ineluttabile e irreversibile. C’è chi non riesce più a dormire, chi non trova motivazioni nella propria vita lavorativa e relazionale, chi si chiede come impatterà tutto ciò sulla propria qualità della vita nei prossimi anni. I progetti, soprattutto famigliari, possono cristallizzarsi: le giovani coppie si chiedono se ancora ha senso fare figli, a che tipo di vita si rischia di consegnarli.
Gli effetti dell’angoscia climatica si manifestano soprattutto come ansia, tristezza e paura riguardo al futuro ambientale del pianeta, rabbia e frustrazione per l’immobilismo politico, legato a un senso di impotenza di fronte alle dimensioni globali del fenomeno e senso di colpa per il proprio impatto (reale o percepito) sull’ambiente. “Ecoansia” è una parola che ha cominciato a emergere come concetto in psicologia nei primi anni del 21° secolo, parallelamente all’aumento delle preoccupazioni sulla crisi climatica e l’impatto dell’attività umana sull’ambiente. Mentre la scienza forniva dati sempre più allarmanti sull’aumento delle temperature, la perdita della biodiversità e gli eventi climatici estremi, si cominciava a notare un impatto psicologico crescente su molte persone.
Nel 2011, su American Psychologist, Susan Clayton e Thomas J. Doherty[1] esplorarono gli impatti psicologici del cambiamento climatico, distinguendone tre effetti principali. Il trauma diretto di vivere situazioni di emergenza provocate da disastri ambientali associati al cambiamento climatico; il secondo, indiretto, è legato alla paura, all’ansia e all’incertezza generata dall’esposizione mediatica sul cambiamento climatico. Infine, il terzo implica effetti sul lungo periodo, come conflitti, migrazioni e cambiamenti nelle comunità dovuti alle conseguenze del cambiamento climatico nelle zone del mondo più colpite.
Oggi, con l’aumento della copertura mediatica e delle discussioni nelle comunità, l’ecoansia è diventata una parola chiave nel discorso sulla salute mentale in relazione all’ambiente. Un articolo di due anni fa[2] ha indagato lo spettro dell’angoscia climatica tra 10.000 giovani tra i 16 e i 25 anni di dieci Paesi distribuiti nei cinque continenti: il 59% dei rispondenti si è detto “estremamente preoccupato”, l’84% “moderatamente preoccupato”; per più del 50% di loro le emozioni prevalenti riportate sono state tristezza, ansia, rabbia, impotenza, senso di inutilità e colpa; il 75% definisce il futuro “spaventoso”, l’83% crede che ormai abbiamo fallito nella cura del Pianeta. Sono numeri impressionanti, specialmente se visti nell’ottica transculturale dello studio, che sfata il mito di un’angoscia occidente-centrica “creata” dai media occidentali. Se da una parte è certa l’esacerbazione dell’ansia legata alla prolungata esposizione mediatica, è innegabile anche che il timore sia reale e supportato da cambiamenti tangibili nella vita di molti e molte.
La psicopatologia è generalmente considerata – comunque erroneamente, semplicisticamente – un malessere se possibile da “rimuovere” per tornare a una condizione di salute ottimale. Ecco, proprio per questo motivo è importante che l’ansia legata ai cambiamenti climatici non sia stata inserita negli elenchi delle psicopatologie psichiatriche. Infatti, per quanto invalidante, l’ecoansia non è una paura legata al proprio mondo interno bensì alla percezione di insicurezza di tutto il mondo esterno. Noi terapeuti ascoltiamo, mitighiamo per quanto possibile l’angoscia in modo da renderla utile e utilizzabile e non paralizzante. Per il resto siamo però impotenti, perché abbiamo ben chiaro che questa forma di ansia nasce da una percezione di abbandono e tradimento da parte del potere politico, ed è solo il potere politico che può fungere da agente curante. Aspettando la COP29.
[1] https://psycnet.apa.org/doi/10.1037/a0023141
[2] https://doi.org/10.1016/S2542-5196(21)00278-3
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