Ebrahim Raisi è il nuovo presidente dell’Iran
Alla fine il nuovo (ottavo) presidente della repubblica islamica iraniana è il vincitore designato dai pronostici, l’hojjatoleslam ultraconservatore Ebrahim Raisi (60 anni), Presidente della Corte Suprema, da molti degli stessi iraniani ritenuto il candidato favorito dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Non poteva essere diversamente dato il sistema di scelta delle candidature e il previsto astensionismo dovuto in buona parte alle condizioni in cui vivono gli iraniani, oppressi da pesanti sanzioni e dalla pandemia di Covid19, che registra ancora circa 10 mila contagi al giorno e solo l’1% della popolazione vaccinata con 2 dosi.
Un po’ di numeri per capire meglio: dei 59,3 milioni di cittadini aventi diritto al voto se ne sono recati alle urne meno del 49% Non era mai accaduto nelle 13 elezioni tenutesi finora in Iran dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Alle precedenti presidenziali del 2017 l’affluenza era stata del 73%. Avendo Raisi ricevuto poco meno di 18 milioni di voti (62% dei votanti), significa che almeno il 70% degli aventi diritto (circa 41 milioni) non ha votato per lui: o perché non sono andati a votare o perché hanno votato altri candidati. Chi erano gli altri candidati ammessi, che hanno ricevuto circa 10 milioni di voti complessivamente? C’erano altri 2 conservatori: Mohsen Rezai, un generale ex comandante dei Pasdaran che ha ottenuto l’11,7%, e Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi (deputato di Islamic law party) che ha raccolto il 3,4%. In mezzo, cioè al terzo posto, l’unico moderato in lizza, Abdulnasser Hemmati, ex governatore della Banca centrale, con l’8,3%. Nessun progressista era stato ammesso. A questi dati va però aggiunta una tuttaltro che trascurabile percentuale di schede dichiarate nulle o non valide: quasi il 13% (circa 3,7 milioni), che hanno quindi superato la percentuale del secondo classificato.
A questi elementi va aggiunto il dato relativo alle candidature: a fronte di quasi 600 domande di iscrizione nelle liste elettorali, a fine maggio il Consiglio dei Guardiani (12 membri sostanzialmente tutti designati) aveva riconosciuto come costituzionali 7 candidature, poi ridotte a 4 prima della consultazione elettorale.
Andando oltre le scontate sensazioni sul senso e significato di un sistema elettorale a queste condizioni, l’elezione di Ebrahim Raisi lascia intravedere qualcosa in più sulla situazione della società iraniana e sulle implicazioni che la ripresa delle consultazioni (per quanto indirette) in corso a Vienna relative al cosiddetto trattato sul nucleare iraniano (Jcpoa) potrebbe avere. E sulle conseguenze che l’interruzione di queste consultazioni potrebbe provocare.
L’Iran è schiacciato da una grave crisi economica conseguente alle sanzioni imposte da Washington dopo la decisione del predecessore di Biden, Donald Trump, di uscire unilateralmente (2018) dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano, che era stato siglato nel 2015 ai tempi di Obama e Rouhani, dall’Iran con i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania e l’Unione europea.
Il reddito pro capite degli iraniani è sceso negli ultimi anni del 30%. L’Iran viaggia su una disoccupazione che supera ormai il 20% e un’inflazione su base annua del 39%. I prezzi dei generi alimentari rincarano a ritmo settimanale e il Covid19 ha avuto già 4 ondate e fatto più di 82 mila morti.
Vero che Biden ha in qualche modo revocato alcune delle sanzioni secondarie imposte da Trump, ma ci vuole ben altro che il permesso di esportare tappeti per risollevare il Paese. E le prospettive esplicite (e occulte) offerte da russi e cinesi appaiono sempre più inevitabili.
Il nuovo presidente Raisi, per quanto intransigente, ha dovuto ammettere qualche settimana fa che si impegnerà comunque per la revoca delle sanzioni, perché il loro peso è ormai insostenibile. È quindi disponibile a trovare un compromesso con Washington; ma è disposto o in grado di frenare il sostegno dei Pasdaran ai gruppi filo-iraniani della regione, o a ridimensionare il programma missilistico? Quello che sembra purtroppo allontanrsi decisamente è un accordo più ampio con l’Occidente e con gli “avversari” in Medio Oriente, che il presidente uscente, il moderato Hassan Rouhani, propugnava. Ma la linea moderata di Rouhani è stata compromessa e messa da parte per l’intransigenza di Trump e i continui attacchi israeliani, che hanno così favorito in Iran, per reazione, l’affermazione su tutta la linea di conservatori e militari.