È tempo di svolta

 

La brusca interruzione provocata dalla pandemia del coronavirus, con la drammatica sequela di sofferenze e interrogativi che ha recato con sé, via via che il tempo passa lascia spazio a una più meditata riflessione su ciò che questa imprevista sfida chiede con urgenza per il cammino dell’umanità. Perché questo è il primo aspetto della presa di coscienza che l’evento impone: siamo un’unica cosa, noi umani, insieme a tutti gli altri esseri che popolano la nostra casa comune.

Ebbene: cosa comporta prendere sul serio questa realtà? Quali impegni e atteggiamenti conseguono dal fatto che stiamo sperimentando che non è possibile salvaguardare e promuovere la nostra salute e il nostro benessere se non insieme, mettendo in atto con sapienza e incisività una strategia comune, di tutti e di ciascuno rispettosa?
La risposta non è difficile, in teoria, ma in pratica è non solo impegnativa ma costosa. Si tratta di compiere una svolta, un cambio di mentalità. È ciò che siamo abituati a chiamare “conversione”. Una parola che, nel greco del Nuovo Testamento, dice appunto una trasformazione del modo di vedere, di sentire, di pensare, di agire: metánoia.

Una conversione, dunque, che non investe solo le forme culturali e sociali in cui esprimiamo ciò che vogliamo essere e fare: ma anche le forme di comprensione e incarnazione del Vangelo che abbiamo ereditato e che esercitiamo. Sì, occorre aprirsi al soffio sconvolgente e trasformante dello Spirito – che soffia dove e come vuole –, prendendo con coraggio la decisione di attraversare con fiducia e speranza il rischio, l’azzardo, e persino la “notte” che comporta l’abbandono di un certo modo di essere e vivere per aprirsi a uno nuovo, in parte inedito e imprevedibile.

Mi ha colpito quanto scritto da Chiara Lubich nel 1972, in un discorso ai Gen (la seconda generazione dei Focolari) intitolato “Per un Uomo mondo”. Preso atto della promessa derivante dall’incontro fra i popoli e le civiltà del mondo intero, Chiara costatava (siamo nel periodo successivo al ’68) «il senso d’incertezza penosa, la sofferenza che l’umanità tutta più o meno sente e certamente sentirà allorché i vari punti del globo saranno scossi da questo impatto». E osservava: «Le verità e i valori umani assoluti, come la Verità eterna e cioè il Regno di Dio, non vanno assolutamente confusi con le nostre strutture mentali che, come un guscio, le contengono. Il vacillare del modo di pensare e la mancanza di fiducia che ad esso oggi si può dare, non deve, non dovrebbe dare l’impressione che siano gli stessi valori assoluti da esso espressi ad essere compromessi. Può esser vero che il pensiero umano, le strutture umane, sono così collegate con le verità che esse esprimono, da crederle indistinguibili. Ma non è assolutamente così».

Chiara indicava, in primo luogo ai giovani, Gesù nell’abbandono da lui patito in croce come la via e il modello per assumere con radicalità ed efficacia questa sfida: «I Gen seguendolo troveranno la possibilità di non tremare di fronte a qualsiasi situazione, ma anzi di affrontarla nella sicurezza che ogni verità umana e il Regno dei Cieli, cioè la Verità, potrà trovare, anche per il loro concorso, le nuove strutture mentali a livello-mondo».

Rileggendo queste parole ho pensato a ciò che Chiara ha vissuto negli ultimi anni della sua esistenza, in quella che lei stessa ha definito una «notte collettiva e culturale». Una notte radicale e devastante, a tutti i livelli, in cui, «entrata» in Gesù Abbandonato, ha intuito di sperimentare la prova che l’umanità nel suo insieme è chiamata ad attraversare per accedere a una cultura nuova, capace di gestire la sfida enorme dell’oggi: la cultura della risurrezione incarnata – su misura dell’intera famiglia umana – in modi di vedere, sentire, pensare e agire sostanziati di verità, giustizia, fraternità e pace. Ciò che stiamo vivendo non ci dice, dolorosamente e ineludibilmente, che è giunto il tempo di compiere questa svolta?

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