E se riscoprissimo il gusto di camminare?

Nelle palestre hanno successo strumenti per camminare o correre restando sul posto: misurano distanze, consumi, velocità, battiti cardiaci, ma camminarvi non porta in alcun luogo, né stimola il desiderio di andarvi. In questa versione moderna della condanna inflitta a Sisifo, camminare è ridotto al movimento alterno degli arti inferiori. Lo spazio, il paesaggio, il terreno, tutto ciò che possiamo vedere e di cui possiamo fare esperienza è sparito. Così per consultare un volume non è più necessario attraversare la città a piedi: basta cliccare e muovere il mouse. Il moltiplicarsi delle tecnologie in nome dell’efficienza, consentendo di massimizzare il tempo e lo spazio della produzione e di minimizzare quello del trasferimento, sta di fatto sradicando il tempo e lo spazio libero. Lo spazio pubblico serve a parcheggiare le vetture, le strade non hanno marciapiedi, i centri commerciali sostituiscono le vie dei centri storici. Così l’ampia gamma di piaceri che rientra nella categoria del pensare, del fare niente di particolare, del distrarsi, del fantasticare, del vagabondare, è divenuto un vuoto da riempire con qualcosa di più definitivo, più produttivo, più veloce. Facendo almeno una chiamata al cellulare. Economizzare, lo spirito che regge la filosofia della scorciatoia, non va d’accordo col camminare: esso è l’atto volontario più lento e più vicino ai ritmi involontari del corpo, il respiro ed il battito del cuore. Eppure stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l’oziare, tra il fare e l’essere. Per capire ciò che può fare la mente a 5 chilometri all’ora basterebbe aver passeggiato con Aristotele ed i filosofi peripatetici, con Hegel, Kant, Kierkegaard. Per non parlare di Rousseau, che scrisse: “La marcia ha qualcosa che anima e ravviva i miei pensieri: non riesco quasi a pensare quando resto fermo. Bisogna che il mio corpo sia in moto perché vi trovi il mio spirito”. Il filosofo Hobbes aveva un bastone da passeggio con incassato un calamaio di corno per appuntare le idee mentre camminava. Il cammino può essere stimolante, o persino dare fastidio anche sul piano sociale. La storia degli ultimi secoli è segnata da cortei e marce di protesta: i personaggi del dipinto Il quarto stato sembrano coscienti di viaggiare verso il cambiamento e verso la storia, fieri nella loro postura eretta e nei loro passi lunghi. Un saggio su una rivista buddhista sostiene provocatoriamente che “camminare può essere la via per pacificare il mondo: a patto che i governanti si rechino a piedi alle conferenze mondiali, invece che a bordo di limousine “. Che Guevara parlò della “fase nomade” della rivoluzione cubana, la Lunga Marcia segnò il destino di Mao- Tse-Tung, l’esodo quello di Mosè. Storicamente una delle forme di deambulazione più cariche di valenze culturali sono i pellegrinaggi. Nelle camminate “laiche” equipaggiamento e tecniche dei camminatori sono orientate a favorire il rendimento fisico: qui, al contrario, i pellegrini si sforzano spesso di aggravare le condizioni del loro viaggio, camminando a piedi nudi, digiunando o indossando abiti penitenziali. Premessa del pellegrinaggio è la concezione che il sacro non sia completamente immateriale e che esista una geografia dell’esperienza spirituale: il luogo in cui è nato o è morto un santo, dove sono conservate le sue reliquie e così via. Il pellegrinaggio a piedi in certo qual modo concilia lo spirituale con il materiale, perché significa far sì che il corpo ed i suoi gesti esprimano i desideri e la fede dell’anima. Gli evangelici, gli ebrei ed i buddhisti vi contestano il culto delle immagini, a discapito dell’interiorità della fede: ma il viandante che arranca su strade polverose diretto ad una meta lontana è una delle immagini più irresistibili ed universali del significato di umanità, una metafora del viaggio della vita. Camminare verso la meta significa meritarsela grazie alla fatica ed alla trasformazione di se stessi che ha luogo durante il viaggio. Anche nell’andare in montagna, come nel pellegrinaggio, il viaggio e l’arrivo sono in simbiosi: viaggiare senza arrivare sarebbe altrettanto incompiuto quanto arrivare senza viaggiare. La storia dell’alpinismo ha radici alquanto lontane. Nel XVI secolo, quando i castelli iniziarono a trasformarsi in palazzi, si progettarono le prime gallerie, non ancora luoghi per l’esposizione di dipinti, ma corridoi che non conducevano da alcuna parte, realizzati per l’attività fisica al coperto. Il giardino medioevale consentì di trasferire all’aperto la deambulazione: lo sfoggio di opulenza condusse ad ingrandire i perimetri disponibili e la successiva scomparsa delle mura diede alla scoperta della natura lo scenario ideale del camminare. Le strade dell’escursionismo e dell’alpinismo erano aperte per sempre. L’alpinismo vive essenzialmente dell’andare per montagne a piedi, anche se l’arrampicata ne rimane l’aspetto più enfatizzato, perché fatto di primati e di difficoltà sempre crescenti, di cime da raggiungere ad ogni costo secondo l’assunto che solo arrivare in vetta è atto significativo. La motivazione tradizionale dell’alpinismo rimane il gusto per gli scenari montani, il loro scomparire e riapparire sempre diverso nel corso della salita, anche se ciò che ci aveva attratto ad avvicinarci si dissolve una volta raggiunto, per tornare vero sulla via del ritorno. Attribuire alle montagne il significato di luogo idoneo per un cammino ascetico, se non addirittura di luogo sacro, di soglia fra questo mondo ed il successivo ha reso, nella storia, il camminare in montagna ancora più ricco di fascino. Se il camminare rurale ha trovato il suo imperativo etico nell’amore per la natura, secondo il motto “prendete soltanto fotografie, lasciate solo impronte”, il camminatore urbano saprà descrivervi la sensazione di libertà e il piacere irripetibile provocati suscitati dal vagabondare per le strade di una città. Qui la varietà biologica è ridotta alla specie umana, ma il ventaglio delle immagini è ancora ampio per chi lo sa cogliere: un forno aperto all’alba, una bottega dimenticata in cui si risuolano scarpe, una finestra infiorata, un vicolo tagliato da un raggio di sole, il porto che si anima all’arrivo dei pescherecci. I cambiamenti sono bruschi, in attesa dietro ogni angolo: e sono volti, suoni, profumi. Persino gli italiani, popolo tradizionalmente sedentario, cedono al fascino delle passeggiate serali in centro città. Al tramonto la comunità va amabilmente a spasso, i giovani sfoggiando il proprio fascino gli uni sugli altri con socievolezza, i più attempati con un passeggio che mostra come si sappia conversare con il corpo. La storia del camminare è la storia non scritta di un’attività pratica, primariamente finalizzata a permetterci di unire tra loro due luoghi. Ma è anche, idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo ed il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare fra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. E se provassimo a suonarlo?

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