E se Gomorra servisse a dare nuova speranza alla periferia?

Il degrado può fa rivolgere la persone alla camorra e la camorra non può esistere senza degrado. E se proprio la mancanza di alternative ci costringesse a pensarne (e a costruirne) di nuove? Serve un nuovo impegno perché anche le trasformazioni urbane più impensabili possano accadere
Le Vele di Scampia

Penso a questa provocazione poco dopo la fine della seconda stagione di Gomorra, celebratissima e criticatissima serie di Sky, che a un grande successo di pubblico ha fatto seguire un altrettanto vivace dibattito sul racconto che viene fatto della camorra. Da una parte, gli entusiasti per una serie ben fatta che (finalmente) riesce a uscire dai confini di casa nostra; dall’altra, i perplessi per un racconto a tinte forti, che sceglie di raccontare la camorra puntando sulla violenza e «facendo misurare il pubblico con il male in modo assoluto e totalizzante”».

 

È vero che in Gomorra mancano figure positive e, in generale, una qualsiasi alternativa alla camorra. La Scampia della serie è quasi lo stereotipo del degrado, in cui si concentrano abusivismo, segregazione e soprattutto criminalità. La presenza imperante della camorra è, al tempo stesso, causa e conseguenza del degrado che si è impossessato degli spazi e delle persone: in un sistema lasciato a sé stesso, la criminalità organizzata dà una parvenza di (perverso) ordine. Il degrado fa rivolgere alla camorra, e la camorra non può esistere senza degrado. Quella di Gomorra è un’immagine a tinte molto forti, che, come detto, tende a lasciare fuori molte sfumature – soprattutto i segnali positivi che sappiamo esserci anche in realtà tanto tormentate. Ma il racconto fatto dalla serie descrive perfettamente la periferia come un mondo a sé, con le sue persone, i suoi paesaggi e soprattutto le sue regole. Un mondo in cui da fuori quasi non è possibile entrare.

 

E se proprio la mancanza di alternative ci costringesse a pensare (e a costruire) nuove alternative, in grado di entrare nel piccolo mondo soffocante di Gomorra? Negli ultimi anni, si è fatto un gran parlare di periferie: periferie esistenziali, periferie dell’anima, ma anche, più semplicemente, periferie urbane. Renzo Piano ha persino usato il proprio incarico di senatore a vita per promuovere un progetto dedicato al “rammendo delle periferie”, dagli alterni risultati. Eppure, nonostante tanta animazione a parole, il tema non è davvero entrato nel dibattito pubblico. Rimane la pluralità delle periferie e dei loro problemi, che spesso si combinano in modi diversi: mancanza di servizi, scarsità di case, degrado ambientale, disoccupazione, segregazione, criminalità… e che non mancano di farsi sentire, con voti di protesta e con proteste vere e proprie, talvolta anche violente (basti pensare a quanto successo in alcune borgate romane, ancora qualche mese fa).

 

Serve allora un nuovo impegno nei confronti delle periferie. Le soluzioni ai problemi delle città non sono mai uniche né semplici da definire, ma non per questo si può distogliere lo sguardo quando ne viene raccontato il male. Per questo è emblematica la sigla finale di Gomorra, in cui i rapper Ntò e Lucariello cantano Nuje Vulimme 'na Speranza. Quella speranza non può nascere da sola. Ha bisogno che le iniziative che dal basso provano a cambiare qualcosa non rimangano sole e anzi vengano coinvolte sempre più nella definizione di nuove soluzioni alle questioni delle periferie. Ha bisogno che si guardi nuovamente a questi quartieri, magari prendendo ad esempio i tanti casi che, nel Nord e nel Sud del mondo, mostrano come anche le trasformazioni urbane più impensabili possano accadere. Soprattutto, ha bisogno che questi non rimangano i problemi di qualche quartiere sfortunato, ma diventino la priorità di una collettività che, insieme, può pensare di affrontarli. Per questo, forse anche il racconto a tinte forti fatto da Gomorra può servire a smuovere qualche coscienza al di fuori di Scampìa e Secondigliano.

 

 

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