È possibile una speranza?

Al romano Teatro dell’Opera è la volta di "Da una casa di morti" di Leos Janàcek. Tre atti brevi in un campo di concentramento
Un momento dello spettacolo "Da una casa di morti", di Leoš Janáček, al Teatro dell'Opera di Roma (Foto: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma)

Janàcek non la finì del tutto nel 1928 quando fu sorpreso dalla morte. L’aveva scritta lui stesso in ceko dal testo di Dostoevskij Memorie di una casa di morti, adattandolo alle proprie esigenze espressive. Tutto si svolge in un campo di lavoro in Siberia: le solite cose, uscita al mattino, lavoro, pasto, ora d’aria, notte. Novità scarse se non l’arrivo di un prigioniero politico che viene subito bastonato. Per il resto non succede nulla. La scena è squallida: litigi, frustrazioni, ricordi di uccisioni e di amori traditi si susseguono nei dialoghi tra i personaggi, nessuno dei quali emerge troppo.

È un mondo disperato in cui il nuovo arrivato urla di dolore. Poi arriva la Pasqua e si dovrebbe in qualche modo essere felici anche perché c’è una rappresentazione teatrale del don Giovanni: risate, come pure nelle successive scene de La bella mugnaia, tra litigi e violenze. In fondo, tutti vorrebbero un poco di amore, ma vero. L’ordine di liberazione giunge però per il prigioniero politico che dovrà uscire come un’aquila che era stata imprigionata.

Per dare vita ad un dramma così statico e corale, di violenza fisica e morale, composta da numerosi personaggi in perenne movimento, il regista Krzystof Warlikowski ha voluto scene metalliche e grigie, un gioco mimico inquietante e bizzarro, una messinscena caotica pervasa di dolore, espressa da una musica ricca di citazioni e al contempo aspra, un “recitar cantando” affannato di bellezza-brutta assai efficace, nudo, ed un’orchestra stridente, aguzza, torbida talora e insieme – nei cori – implorante come un coro greco. Una frenesia sul palco che corrisponde ad un altro tipo di frenesia nella musica, più statico ma dalle risonanze si direbbe talora cavernose.

È il delirio psichico dei condannati, che ricordano e rivivono i delitti, i tradimenti, gli amori negati, la voglia di vendetta. La morte sembra la grande protagonista di questo inferno umano. O forse un disperato bisogno di amore, di un barlume di luce.

La direzione del giovane Dmitry Matvienko è attenta, curata e l’orchestra risponde in una partitura scabrosa a cui non siamo abituati: diseguale, ritmica, variabile all’estremo.

Lo spettacolo funziona nella sua teatralità che pare riassumere l’intero Novecento. Da rivedere e riascoltare.

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