E per scuola… una città
Globalizzazione e educazione. La prima è comparsa solo di recente in tutti i vocabolari. La seconda è antica quanto il mondo, da quando ha cominciato ad essere abitato da uomini. Due termini non necessariamente antitetici, di cui tuttavia pare arduo trovare un punto di convergenza. Basti pensare agli inconvenienti procurati ai sistemi scolastici più collaudati dalle migrazioni odierne che sono, appunto, globali. Le proposte educative che sappiano far fronte alle sfide della globalizzazione appaiono deboli e inefficaci, dato che l’altra faccia della medaglia pare proprio il suo opposto: la frammentazione, la precarietà, il disagio, l’insicurezza. In definitiva, la povertà, che allarga sempre di più la forbice tra chi ha e non ha, anche in fatto di conoscenze. Nel recente convegno internazionale promosso da EdU (EducazioneUnità) si sono approfondite le nuove dinamiche che caratterizzano gli sviluppi del mondo contemporaneo. Si è parlato tuttavia soprattutto di educazione, e del ruolo che essa dovrebbe rivestire nel governare queste nuove sfide che fronteggiano l’umanità. Oltre cinquecento educatori e studiosi di Scienze dell’educazione provenienti da varie nazioni e continenti hanno posto al centro di un ampio dibattito culturale, ed allo stesso tempo di presa diretta, la fisionomia pedagogica e le varie esperienze educative espresse dal Movimento dei focolari in un sessantennio di vita. Ne è emerso un approccio educativo globale ai problemi del mondo contemporaneo globalizzato. Titolo del convegno E per scuola… una città. Ad indicare la centralità del corpo sociale nel processo educativo. Una comunità che educa, in dialogo con altre comunità, dunque. È il nostro impegno – dice Michele De Beni, docente presso l’università di Verona e referente, assieme a Carla Marchesoni, di EdU -: dar vita a comunità sempre più ricche di quel reciproco interesse che fa degli individui persone in comunione tra loro. Una comunità, questa, che sa prendersi responsabilmente cura dell’educazione e donarsi senza sosta, con coraggio; sa ricominciare e, per amore, riprendere insieme ai propri giovani cammini di speranza. È questo l’auspicio e l’augurio che facciamo a ciascuno di noi. Il coraggio dell’utopia Alcune domande al prof. Giuseppe Milan, ordinario di Pedagogia interculturale all’Università di Padova. È direttore presso la stessa Università del master per Pedagogista in ambito sociale, penale e di prevenzione della devianza. Il coraggio di credere all’utopia. Che cosa vi spinge ad intraprendere un cammino così arduo, malgrado tutto sembri dire il contrario? Sono molteplici, penso, i motivi per cui abbiamo recuperato la fiducia in un progetto educativo che potremmo definire utopico perché punta decisamente all’interculturalità e al dialogo come strumento educativo efficace. Il fatto però di trovarci in tanti educatori di tante parti del mondo, che già da tempo abbiamo una consuetudine di relazione, di incontro, di appartenenza, di scambio, ci dà la sensazione di non essere soli. Perché, a mio parere, il problema maggiore è la solitudine dell’educatore, sia esso genitore o insegnante, o di chi semplicemente presuma di farcela da solo. Perciò il senso di una comunità, di una vera comunione anche tra educatori sostiene e dà la forza. Le difficoltà non spariscono, ma col confronto e con l’aiuto reciproco non si vedono come motivo di sconfitta o di depressione. Sempre prevale la fiducia. Una comunità che educa, quindi. Pur inseriti nei contesti educativi più diversi, a chilometri di distanza gli uni dagli altri, si lavora ad un unico progetto educativo. Può descriverlo a grandi linee? Non è certo facile riferirlo in poche parole. Si tratta di un percorso complesso, in cui si parte dalla realtà odierna, frammentata, apportatrice di disagio, ad una realtà che in qualche modo noi intravediamo e prefiguriamo come orizzonte di speranza, come dicevamo prima, e in questo orizzonte si situa l’idea della comunità. Non si nega quindi la complessità, e nemmeno l’esistenza dei molti. Perché si tende a ignorare, nel migliore dei casi, chi non è come me… Sì, ci sono due modi per negare (culturalmente) l’altro. Uno è omologarlo, cancellare le differenze. E questo è un errore. Oppure accentuarle, estremizzandole. Le conseguenze sono altrettanto negative. Noi riteniamo invece che anche all’interno della comunità e delle culture deve esserci la molteplicità. Del resto, Chiara Lubich ha indicato come modello altissi- mo anche per la comunità educante la Trinità, dove sono Tre e sono Uno. È, questa l’esperienza internazionale del movimento da lei fondato, dove le persone più diverse dialogano. In questa reciprocità si scoprono le ricchezze dell’altro e ciascuno dà il meglio di sé. Questo incontro delle diversità per certi aspetti potrebbe sembrare un’utopia. Però noi vediamo che questo processo, questo progetto educativo è possibile. Tenendo conto però che esso non può essere imposto o calare dall’altro (sarebbe una dittatura). L’educazione è, e resta, quell’umile possibilità, di avvicinarsi passo dopo passo alla meta, senza avere la presunzione di raggiungerla. È un compito grandioso. Jacques Maritain diceva che l’esperienza non si può insegnare. In realtà, voi fate di questo aspetto, piuttosto trascurato nella scuola, un elemento importante per la vostra azione educativa. Noi abbiamo parlato in questo convegno di una professionalità complessa degli educatori. Essi devono avere senz’altro le competenze tecniche necessarie all’esercizio della loro professione. La conoscenza della materia d’insegnamento, della didattica, la capacità di organizzare l’attività scolastica è senz’altro molto importante. Ma più importante ancora è essere esperti in umanità. Lo affermano tutti i grandi maestri della pedagogia, antichi e moderni. La persona umana è strumento primo di educazione. Le parole, da sole, non insegnano. Ma attraverso l’esperienza, il testo che tu sei, puoi trasmettere gli insegnamenti più profondi e duraturi. Del resto, anche gli studi più recenti di psicologia dicono che ogni essere umano- e a maggior ragione i bambini- hanno una memoria semantica (delle parole dette) e una episodica (del vissuto che cade sotto i loro occhi). Dicono che è molto più duraturo e coinvolgente questo secondo tipo di memoria. Accanto alla dimensione esperienziale, non si è trascurato tuttavia l’aspetto del pensare, dell’imperare a pensare condiviso. Entriamo nella relazione speciale tra insegnante e studente. Come è possibile la reciprocità tra questi due soggetti dell’educazione? Anche da questo punto di vista, il maestro Gesù è stato uno che ha guardato negli occhi uno per uno i suoi discepoli, li ha chiamati per nome, ha insegnato con le parole e con le opere. Li ha presi per mano, dando loro fiducia, e lasciandoli tuttavia liberi, fino a farli diventare pescatori di uomini. Ha poi formato la comunità, dando loro una luce, il senso dell’appartenenza, un motivo alla propria esistenza. Gesù è il maestro, nel senso latino di magis (di più). Suo compito è far parte, condividere questo di più con chi ha meno. Come pensate di trovare una risposta alle sfide educative poste dal mondo globalizzato? Io direi che ci siamo incamminati.. È la prospettiva dell’oggi, ma anche del futuro. È la relazione con l’altro che fa società, comunità. Le classiche abilità previste dall’istruzione di base non sono più sufficienti in un mondo globalizzato. Devono essere integrate da abilità quali il miglioramento, la difesa e la conservazione delle abilità lavorative, del patrimonio culturale e linguistico, dei valori etici, della coesione sociale, e dell’ambiente. L’interculturalità stessa, di cui oggi tanto si parla, è un aspetto di queste nuove abilità. Siamo convinti che questa è la strada da percorrere, suffragati anche in questo da molti pensatori e uomini di cultura del nostro tempo. LA SCUOLA SIAMO NOI Quando vengono a trovare la nostra scuola – dice Paula Luengo, pedagogista cilena che vive e lavora in Argentina – ci domandano: Chi è il capo?. Non sanno spiegarsi come quella poverissima gente indigena di cultura calchaqui, che vive da secoli emarginata in una regione inospitale ai piedi delle Ande, sia in effetti responsabile della scuola. Trentasei anni fa, sostenuti dai loro amigos focolarinos che volevano valorizzare le loro abilità artigianali tipiche delle popolazioni andine, hanno iniziato con un semplice tavolino a lavorare la lana e la creta, le uniche cose che sapevano fare. Da un anno hanno ottenuto il riconoscimento del ministero dell’Educazione, diventando il primo istituto superiore di formazione artigianale dell’Argentina ed il secondo in tutta l’America Latina. Parliamo della scuola Aurora, sorta a Santa Maria di Catamarca nella provincia di Tucumán, di cui abbiamo già riferito sulle pagine di questo giornale. Oltre alla scuola argentina, siamo stati fedeli, e, anche, appassionati cronisti della Petite Flamme in Congo, delle attività educative nelle favelas del Brasile, e nei rioni marginali della Bolivia, della Colombia, delle Filippine. Né è qui possibile menzionare le attività educative sorte attorno alle cittadelle del movimento. Basti pensare a Fontem in Camerun e Loppiano in Italia. Inoltre, alle azioni di pace e solidarietà avviate nelle scuole italiane ed europee, diventate per centinaia di ragazzi percorsi meravigliosi di dialogo interculturale con i coetanei di altre zone del mondo, che li ha portati in molti casi ad assumere l’impegno di adozioni a distanza. Sono forse in tutto questo le ragioni di una speranza rinnovata in un futuro migliore del passato: dappertutto, nel mondo, cresce una foresta di uomini liberi e consapevoli, perché capaci di donare.