E ora dove andrà la Libia?
Notizie ancora confuse dal Paese africano, ma è certo che dopo sei mesi le ore del regime Gheddafi sono contate. Cade un dittatore ma chi prende il suo posto?
Le notizie provenienti da Tripoli sono evidentemente ancora da prendere con le molle. Nei convulsi momenti finali di una guerra – perché di guerra si è trattato – tutto è possibile e, anche se la sorte del regime di Gheddafi è ormai segnata, non si sa bene quali saranno gli sviluppi della vicenda a breve termine, ma soprattutto nel medio e lungo periodo. La guerra di Libia, cominciata ben sei mesi fa, è all’epilogo: dopo le fallaci previsioni iniziali di poche settimane di bombardamenti e dopo la disillusione degli attaccanti e dei “ribelli” di Bengasi, non ci si aspettava che il regime di Gheddafi cadesse così rapidamente.
Si può e si deve condividere la soddisfazione per la caduta di un regime dai tratti indiscutibilmente dittatoriali – ricordiamo che il rais è incriminato alla Corte penale internazionale de l’Aja, a cui forse dovrà render conto delle sue azioni –, ma anche genialoidi, nel coinvolgimento che il rais ha saputo fare dell’Africa e di tanti Paesi arabi nelle sue lotte per una maggior responsabilizzazione dei Paesi del Terzo mondo.
La guerra finisce perché la Nato è riuscita per diverse vie, confessabili e inconfessabili, ad armare consistentemente i cosiddetti “ribelli di Bengasi”, più ancora che per le migliaia di raid aerei che francesi, inglesi, italiani e altri hanno realizzato in questi sei mesi. Ancora una volta è stato dimostrato che le guerre si vincono marciando sulla terra, e non volando nei cieli.
Sono fuori luogo i toni trionfalistici di alcuni leader europei, Sarkozy in testa, così come quelli più comprensibili dei ribelli, guidati da un comitato che dovrà ora dar prova di coesione: perché tale comitato, eliminato Gheddafi, è tutto fuorché coeso nelle sue finalità costruttive e nella sua composizione: ingloba un po’ di tutto, dagli esiliati della prima ora agli islamisti vicini ad al Qaeda.
Bisogna ora permettere ai libici di ricostruire il loro Paese e di dare una qualche forma di governo al territorio chiamato Libia: l’esempio infelice dell’Iraq, incapace di darsi un governo ad otto anni dalla guerra, è sotto gli occhi del mondo intero. La democrazia non si esporta, e ogni popolo deve poter scegliere il regime che più è confacente alla propria struttura sociale ed etnica.
Il 22 marzo scorso, appena iniziata la guerra di Libia con gli attacchi prematuri delle aviazioni di Sarkozy e Cameron, pubblicammo un editoriale in cui esprimevamo una decina di “perplessità” su tale conflitto. È doveroso, quindi, verificare se tali perplessità si sono rivelate reali, oppure se i fatti le hanno smentite:
1) Una guerra si sa come comincia, ma non come finisce. Si pensava di ridurre al silenzio Gheddafi in pochissime settimane. Ci sono voluti sei mesi, e non sappiamo come il Paese sarà tra altri sei mesi, per le mille tensioni che l’attraversano;
2) È una guerra giusta quella intrapresa? Su questo punto le discussioni sono aperte, ma non sembra proprio che la risposta possa essere univoca. La guerra non è stata giusta almeno per il motivo che vi sono state delle vittime innocenti, in misura sproporzionata ai risultati ottenuti;
3) Le rivoluzioni in corso nel mondo nord-africano e arabo in genere meriterebbero un’attenzione non solo militare da parte dell’Occidente e dell’Europa in particolare. Su questo punto bisogna dire che la sola attenzione manifestata dall’Europa nei fatti è stata quella militare (tra l’altro, perché la Nato è stata coinvolta? Non era meglio un impegno “europeo”?). Nei fatti non è stato messo in atto nessun piano di sostegno alle rivoluzioni arabe;
4) Le tendenze radicali e islamiste sono molto attive in tutta l’Africa settentrionale, anche in Libia tra i rivoltosi. Tra i cosiddetti ribelli, lo confermano alcune analisi indipendenti, ci sono tanti fondamentalisti, che non si sa come reagiranno a breve o medio termine;
5) Incognita immigrazione clandestina. È evidente come non si possa dare una risposta esaustiva oggi: ne riparliamo tra sei mesi, per capire se ci sarà una nuova ondata di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana;
6) La guerra è il teatro principe della menzogna. Su questo non c’è dubbio, lo resta e lo resterà a lungo. Anche le buone intenzioni di taluni presidenti europei ben presto verranno messe alla prova dei fatti, ad esempio sulla gestione delle risorse petrolifere e minerarie libiche;
7) Le guerre chirurgiche dell’Occidente fanno alla fine tante, troppe vittime civili. Anche questa volta è stato così, pure se i dati reali non sono disponibili;
8) Il conflitto in Libia rischia di far esplodere le secolari tensioni interetniche che oppongono tripolitani e cirenaici. Anche per la verifica di questa perplessità ci diamo appuntamento tra sei mesi. Le tensioni sorte all’interno del gruppo dirigente dei rivoltosi fa pensare che la composizione sarà estremamente difficile;
9) L’Italia è particolarmente esposta alle ritorsioni di un regime ferito e rabbioso, che non ha mai fatto della razionalità il proprio credo. Effettivamente questa perplessità si è rivelata infondata;
10) I costi della guerra si calcolano in miliardi di dollari. Probabilmente, a conti fatti, quella attuale alla fine costerà una dozzina di miliardi di dollari, tenendo conto solo delle voci direttamente militari.
In conclusione, ci sembra che la guerra di Libia sia stata certamente dichiarata da alcuni membri della Nato con un appoggio della comunità internazionale più condiviso di quello che ha preceduto i casi bosniaco-kosovaro, iracheno, afghano e costivoriano. Di questo bisogna essere coscienti. Ma le modalità del conflitto hanno sollevato perplessità che sostanzialmente rimangono purtroppo ancora valide.