È ora di uscire per sempre dal conflitto israelopalestinese
Gli occhi del mondo puntati sull’esplosione del conflitto tra Hamas ed Israele, attestano la sua rilevanza internazionale, non tanto perché è un altro tassello che si inserisce pericolosamente nel quadro di grave instabilità mondiale, ma perché nella interconnessione di tutti questi pezzi di guerra mondiale, esso è uno snodo principale.
Non si può comprendere quanto sta accadendo senza conoscere profondamente la storia degli ultimi 76 anni e senza avere seguito l’acuirsi delle tensioni durante l’ultimo anno. Molti avevano avvertito di quanto poteva accadere.
Vivendo da due anni ad Haifa, nel nord di Israele, ne colgo tutta la gravità: non solo per l’enorme numero di vittime (quasi 3 mila in soli tre giorni), ma perché moltiplica pesantemente un odio che sarà lungo e difficile superare.
Nei commenti dei media internazionali si sta dicendo quasi tutto, ma vorrei mettere in evidenza quella che sento come una priorità.
Solo pochi giorni prima, il rabbino Ron Kronish di Gerusalemme, una vita dedicata alla tessitura della pace, scriveva: «per oltre 40 anni siamo stati testimoni del prevalere del Processo di Guerra sul Processo di Pace in Israele e nella regione. Mi sembra che il Processo di Guerra non abbia avuto molto successo… e che porta con sé molte distruzioni di proprietà e vite umane e aumenta unicamente la paura e la sfiducia da entrambe le parti del conflitto».
Intervistato durante il secondo giorno di scontri, dopo la forte denuncia della sofferenza palestinese, l’ambasciatore palestinese a Londra, Husan Zumlot, ha cambiato tono e concluso così una intervista: «Un’ultima cosa. Questa è una opportunità per il mondo di svegliarsi per risolvere questa situazione e ciò sarà l’inizio di una stabilità nella regione e nel mondo».
Sì, deve esserci chiaro che non sarà sufficiente una tregua, né – tanto peggio – la soppressione di una parte sull’altra. Occorre uscire definitivamente dal conflitto Israelo-Palestinese: è questa una condizione necessaria per la pace nella regione mediorientale e nel mondo, come anche il re di Giordania Abd Allah II ha appena dichiarato all’Assemblea Generale dell’ONU.
La chiusura dal conflitto è ovviamente possibile solo cambiando paradigma, solo fondando la sicurezza sulla giustizia e sulla la cooperazione, solo se tutti gli attori locali, regionali e internazionali vi concorreranno sinceramente.
Ed occorre aggiungere un altro elemento forse mai preso abbastanza in considerazione: nulla potrà funzionare senza un serio, ben preparato, processo di riconciliazione tra i due popoli, che deve precedere e accompagnare ogni accordo.
Non è solo un affare di alta politica internazionale, tutti possiamo essere bene informati e alzare la nostra voce in tanti modi. Vissuto da qui – da una Terra che osiamo chiamare “santa”, ma che in realtà ne è la negazione quotidiana e in cui la santità è visibile solo in chi giorno per giorno continua ad amare il nemico – mi pare troppo alto il prezzo che stiamo pagando.
Ma sento prevalere in me una speranza. No, non è un sogno, ma la ragionevole consapevolezza che l’umanità è capace di con-vivere, di stabilire fraternità tra le sue diversità, perché l’unità nella varietà è il suo destino.
La speranza che proprio da queste ore, da questo urlo immenso e assurdo di sofferenza, possa venire la forza politica e civica per riconvertire il processo di guerra in un processo di pace.
Un processo che deve aprirsi a modalità e soluzioni nuove, concrete e graduali, in una corresponsabilità tra istituzioni e popolazione, soluzioni ispirate a proposte esistenti, già offerte congiuntamente da israeliani e palestinesi che hanno saputo guardare oltre il conflitto.
Lettera da Haifa 10 ottobre 2023
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