È l’ora di Britten
A Roma, all’Accademia Santa Cecilia, Antonio Pappano affronta Benjamin Britten, a cent’anni dalla nascita. Si esegue la Serenata per tenore corno e archi op. 31, complici il tenore Ian Bostridge e il cornista Alessio Allegrini. Diciamolo subito, che è un gran piacere ascoltare una musica così raffinata, elegante, essenziale, con un tenore dalla tessitura estesissima negli acuti come nei gravi e uno strumentista morbidissimo – una impresa, in genere, per i cornisti – e forte, nello stesso tempo. Le otto poesie, prese da testi che spaziano dal Quattrocento all’Ottocento, ora malinconiche ora romantiche ora delicate, vengono tradotte in musica da Britten con sonorità mai eccessive, che l’orchestra sottolinea senza pesantezze.
Il canto vola dando ad ogni parola un suo suono particolare ed è singolare che, nel Novecento sperimentale e atonale, la melodia di Britten sia carezzevole o sintetica, languida e sospirosa, ma anche tenera e virile senza alcuna affettazione, tanto da colpire l’orecchio con felicità. Britten ignora le asprezze, ha un animo dolce e misurato. Pappano lo sa, perciò dosa le sonorità orchestrali, affinché la voce di questo grande tenore spazi melodiosamente.
Poi, tocca all’orchestra, sola, eseguire il Quartetto per archi in re min. di Verdi, unica composizione strumentale dell’operista, qui nella versione orchestrale. Liricità, polifonia corretta, clima melodioso di Aida si sentono qua e là: un buon prodotto, senza vette.
Quando si passa alla Quinta Sinfonia di Beethoven il rischio è della ripetitività di un brano fin troppo noto. Miracolo, Pappano dirige con slancio ma anche morbidezza, fa cantare letteralmente le singole sezioni dell’orchestra – dolcissimo l’Andante con moto – per scatenarsi nell’infinito finale dove sembra che Ludwig voglia trascinare l’universo nella sua foga liberatrice.
Grande prova orchestrale e direttoriale, Ludwig pare nuovo.