È l’ora della responsabilità
Quale le sembra il lascito più significativo del convegno di Firenze celebrato lo scorso novembre?
«Io penso che sia lo stile di lavoro, il metodo, il ritrovarsi a piccoli gruppi e avere la possibilità, il tempo a disposizione per ascoltarsi e confrontarsi, per arrivare a condividere delle linee comuni o per lo meno identificare delle possibili proposte. Non è stato un seminario di studio teorico. Questa mi sembra l’eredità più importante che speriamo possa essere attuata nelle realtà diocesane».
A Firenze vescovi e laici, consacrati e sposati, sedevano attorno allo stesso tavolo. Non sempre e non dappertutto è così. Il laicato italiano esce da una lunga stagione di "guida sicura" da parte dei suoi pastori. Una guida che non ha esitato a dettare anche strategie politiche. Francesco spinge per una visione decisamente più pastorale. Come permettere questa transizione? E quanto è pronto il laicato italiano ad assumersi le sue responsabilità?
«Questo è un punto molto delicato. Se guardiamo il laicato aggregato vediamo che c’è un’enorme ricchezza, abbiamo fatto tanta strada nel lavorare insieme, ma dobbiamo anche ammettere che non tutte le realtà aggregative sono disponibili a questo tipo di percorso. Dall’altra parte c’è un episcopato che a sua volta fatica, che riconosce a parole il ruolo, l’importanza del laicato, ma, mi verrebbe da dire, non lo sostiene o forse lo coinvolge quando si tratta di riempire una piazza, di muoversi rispetto a certe urgenze, senza promuoverne l’autonomia né il protagonismo. Il problema è sempre duplice: da una parte il laicato non è ancora sufficientemente maturo, ma dall’altra parte non viene nemmeno aiutato a fare un salto di qualità. Qui occorre che impariamo a prenderci le nostre responsabilità».
Fra le raccomandazioni del papa, nel suo discorso a Santa Maria del Fiore, ricordiamo la «capacità di dialogo e di incontro», come invito a «costruire insieme, non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Francesco esortava a non aver paura di «compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti – diceva – non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre più autentiche certezze». Parole di attualità?
«Non sono solo parole di attualità, ma costituiscono degli orientamenti. Il dialogo e il confronto richiedono tempo, la disponibilità ad ascoltare, a confrontarsi con l’altro diverso da me, che sia di un’altra aggregazione come fuori dal circuito ecclesiale. Troppo comodo farlo con quelli della propria cerchia. Mi sembra che il papa voglia richiamarci proprio a questo. Ma non di rado siamo individualisti, un po’ efficientisti, poco disposti a metterci in discussione. Si tratta dunque di creare ponti, di aprirsi a chi ha posizioni più laiche, più diffidenti o con non credenti: in nome di una umanità comune possiamo trovare un punto di convergenza».
Come dare continuità al convegno di Firenze?
«Il punto di domanda a riguardo è particolarmente grande, io stessa sarei curiosa di sapere che cosa si pensa di fare. Intanto bisognerebbe acquisire la capacità di fermarsi e fare una verifica. Come dare continuità? Si è scelto di non produrre dei testi conclusivi – l’ennesimo documento -, però mi sembra di aver capito che la segreteria generale voglia predisporre un sussidio. Certo, sarebbe importante una sintesi che ci permetta di rilanciare il convegno. La cosa più fattibile è per lo meno, recepire lo stile e sperare che nelle diocesi ci siano spazi di confronto come ai tavoli di Firenze».
Ci sono esperienze concrete, iniziative, progetti che testimoniano all’interno della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali un nuovo modo di lavorare insieme, al di là delle diverse sensibilità di ogni aggregazione?
«Credo che questo cammino richieda tempo e tantissima pazienza perché implica relazioni che non si costruiscono dalla mattina alla sera. Il panorama è molto variegato e prima di riuscire a coinvolgere tutte le aggregazioni (la Cnal ne ha 68 e tante non ne fanno ancora parte) occorre tempo. C’è ancora chi pensa di andare per la sua strada, magari perché ha una consistenza numerica, un certo apprezzamento a livello ecclesiale, mezzi economici. Camminare insieme, invece, richiede tanto impegno. Come laici dobbiamo ancora crescere rispetto a quello che è il messaggio del Concilio Vaticano II: c’è un’identità laicale di cui i laici tante volte non sono consapevoli».
Quali ritiene siano le urgenze del Paese oggi a cui come cristiani e prima ancora come cittadini siamo chiamati a rispondere?
«Direi che è sotto gli occhi di tutti che nella nostra realtà la voce dei più piccoli non è mai ascoltata, le loro sofferenze, il loro bisogno di essere amati non sono mai presi in considerazione. Si predicano dei diritti, ma noi adulti facciamo fatica ad assumerci la responsabilità che ci competono. Il tema della famiglia è particolarmente scottante, ma l’aspetto più delicato riguarda i minori che soffrono di non essere amati, di essere divisi fra quattro “genitori”. Altra grande urgenza credo sia il tema educativo, aiutare i più giovani a dare un senso alla propria esistenza con degli adulti che siano punti di riferimento. Se non riusciamo a orientare oggi gli adulti di domani siamo in un vicolo cieco».