E lasciatemi divertire!

Uno spettacolo gradevole e divertente, messo in scena al teatro dell'Opera di Roma fino al 21 febbraio, grazie alla regia e alla creatività dell'ex tenore David Livermore
Il Barbiere di Siviglia all'Opera di Roma

Ci si diverte, eccome e forse fin troppo nel nuovo allestimento del Barbiere di Siviglia al romano Teatro dell’Opera, in scena sino a al 21 febbraio. David Livermore, ex tenore ed ora regista, ne ha da vendere di fantasia. Così fin dalla sinfonia vediamo scorrere sullo schermo i medaglioni di regnanti e dittatori – da Luigi XVI a Hitler, da Franco a Saddam da Stalin ad un Mussolini “rovesciato”- e poi il povero Almaviva che viene ghigliottinato e gruppi di figuranti decapitati. Questa, dei manichini senza testa,  scorre per tutta l’opera, come un topos caricaturale, ma non troppo. Perché Livermore vuole ripercorrere i duecento anni del Barbiere – si festeggiano in questo mese – attraverso le mode, le gag, e le rappresentazioni della storia, dai cicisbei del ‘700 alla Rivoluzione francese (l’opera è del 1816) a Napoleone, al romanticismo, alla Belle Époque e (quasi) fino ad oggi.

 

Scene e controscene, un moto perpetuo, un dinamismo fisico dei cantanti-attori costante e il palco quasi mai vuoto. Insomma, una rappresentazione molto fisica e visiva della musica rossiniana, che sprizza verve, malizia, spirito da ogni poro. Certo, sul palco si corre un po’ troppo e si rischia di perdere la bellezza della musica, anche se lo spettacolo iperbarocco è assicurato e piacevole, con trovate umoristiche calzanti (il temporale, il personaggio di don Basilio anchilosato e don Bartolo in carrozzella) e costumi sgargianti.

 

La parte musicale è meno convincente. Nel secondo cast spicca la Rosina, di fresca presenza e di bella voce, di Teresa Iervolino, a sua agio nelle volate belcantistiche come nella recitazione della finta ingenua. Un po’ meno gli altri, fra cui il tenore Merto Sungu cui è toccata la difficilissima aria finale “Cessa di più resistere”, che forse gli si poteva evitare, visto che di tagli ce ne sono stati. Donato Renzetti è quella guida esperta che tutti conoscono: gesto chiaro, antiretorico, direzione pulita. Forse un po’ più di verve ed un suono orchestrale più luminoso non avrebbero fatto male (le percussioni talora esageravano).

 

Ma nell’insieme lo spettacolo appaga la voglia di divertimento onnivoro, tipica del nostro tempo e fa venire la voglia di scoprire ancora di più il genio rossiniano, che è in fondo il motore di questo capolavoro che – siamo certi- sarebbe tale anche con un solo pianoforte, quattro cantanti bravi e qualche corista. La musica di Rossini infatti è in sé un prodigio di umorismo.

Teatro pieno, il che è davvero una gran bella cosa.

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